Il mare raccoglie il grido della terra e dei poveri
sabato 8 luglio 2023

Il mare è tante cose insieme. Lo ricorda l’enciclica Laudato si’ attraverso la categoria di ecologia integrale: i cambiamenti climatici sono connessi alle migrazioni, la perdita di biodiversità con la qualità ecologica del mare, le guerre con i profughi e le distruzioni ambientali. Scrive papa Francesco:

«I cambiamenti climatici danno origine a migrazioni di animali e vegetali che non sempre possono adattarsi, e questo a sua volta intacca le risorse produttive dei più poveri, i quali pure si vedono obbligati a migrare con grande incertezza sul futuro della loro vita e dei loro figli. È tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale, i quali non sono riconosciuti come rifugiati nelle convenzioni internazionali e portano il peso della propria vita abbandonata senza alcuna tutela normativa. Purtroppo c’è una generale indifferenza di fronte a queste tragedie» (LS 25).

L’indifferenza di fronte al fenomeno migratorio va di pari passo con l’indifferenza di fronte ai temi ambientali. Il mare raccoglie l’eco del grido della terra e del grido dei poveri. I cambiamenti climatici hanno aumentato la precarietà del mare. Cresce la temperatura, cambiano le specie viventi che emigrano da un mare all’altro, la maggiore acidità delle acque marine mette in pericolo la fauna, la biodiversità è a rischio. Ecco il grido della terra.

E poi c’è il grido dei poveri. L’uomo subisce le conseguenze nella vita e nel proprio lavoro: innalzamento delle acque, erosione delle coste, meno biodiversità, inquinamento, eventi meteo estremi. Ma l’uomo sa anche di essere la causa di trasformazioni così veloci. Il degrado è dovuto a deforestazione, monocolture agricole, rifiuti industriali, allevamenti intensivi, pesca distruttiva. L’economia mondiale viaggia via mare. Il 90% delle merci viene trasportato in container: ciò ha permesso il trasferimento di numerosi beni a costo ridotto. I numeri sono da paura: una nave portacontainer può spostare un carico che equivale a diecimila camion. In tutto il mondo transitano ogni settimana due milioni di container. Facile capire che il controllo del mare è fondamentale per i commerci: la nostra è un’economia del mare non dichiarata, tenuta sotto silenzio. Come nel dimenticatoio finiscono i due milioni di marittimi che solcano i mari per trasportare merci. Gli equipaggi delle navi conoscono turni disumani, senso di solitudine e di abbandono, crisi psichiche per stress e depressione, incidenti mortali. Manca una cultura del lavoro e della giustizia sociale, che ponga fine a lavori sottopagati, a turni massacranti e a non avere accesso a cure adeguate nel caso di bisogno. I marittimi morti in mare non fanno notizia. Tutto ciò testimonia il grado di scarsa solidarietà e la disumanità che respiriamo. L’indifferenza è padrona. La pandemia e la guerra in Ucraina hanno anche favorito il fenomeno delle navi abbandonate. I dati della Federazione internazionale dei lavoratori dei trasporti, che aggiorna l’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), riportano che, mentre fino al 2016 le denunce di abbandono non superavano le 25 unità, nel 2022 si sono raggiunte le 103 navi con 1842 marittimi coinvolti. Gli armatori non coprono più i costi della navigazione o della manutenzione bloccando pagamenti e contatti. Persone e navi sono lasciate al loro destino. La situazione si complica ulteriormente perché i marittimi non possono scendere a terra: non avendo il visto, non riescono a pagarsi il ritorno e temono di perdere il diritto di reclamare gli stipendi pregressi. Talora sperano nella vendita all’asta della nave per poter recuperare il credito. In queste situazioni, la vita diviene insostenibile: generatori che non funzionano, senza riscaldamento, scarsità di acqua potabile e cibo, zero assistenza sanitaria, difficoltà a comunicare con le famiglie rimaste senza il sostentamento proveniente dal lavoro in mare. Gli equipaggi sono sottoposti a condizioni impietose, senza possibilità di rimpatrio. Più di un secolo fa il narratore Joseph Conrad scriveva che «non esiste prova più dura per un marinaio che sentirsi sotto i piedi una nave morta».

Mare nostro

Tutto si tiene: il grido del mare è già grido dell’uomo. E viceversa. Soprattutto se il mare diventa un cimitero. L’indifferenza nei confronti dei migranti, denunciata più volte da papa Francesco sia in Laudato si’ che in Fratelli tutti, non è che la punta di un iceberg di un modello etico e sociale. Il paradosso è lampante: se dal mare arrivano merci è segno di prosperità economica, ma se arrivano persone ci si allarma fino a chiudere occhi e cuore. I recenti casi di Cutro e del Mar Egeo ce lo ricordano, così come non sappiamo più contare le tragedie ripetutesi nel tempo.

Il mare fa sentire l’uomo straniero, mentre dovrebbe farci vivere lo straniero come uomo. Il Mediterraneo è confine non dove il mondo finisce, ma dove i diversi si toccano e si possono riconoscere. Non fa sentire ostaggi di un territorio conquistato, di un campanile che orienta. Secondo il filosofo Franco Cassano, «il mare opera uno sfondamento che apre la mente all’idea di partenza, all’esperienza di un’infedeltà che rende incerta ma anche più grande e complessa la fedeltà, che inventa la nostalgia, quel dolore e quel desiderio della patria che la fanno diventare interiore, compagna di viaggio di ogni viaggiatore»[2]. L’importanza del mare è che rimane interfaccia, mediazione tra i popoli. Il Mare nostrum non è tale perché ci appartiene come una proprietà, ma perché dice il nostro posizionamento e consente relazioni. L’infinito del mare può riconciliarci con il limite, per superare la litigiosità condominiale che ci contraddistingue, la tentazione di armarci per difendere i commerci e ostacolare gli arrivi indesiderati.

Il mare è confine che separa e unisce, richiamando alla nostra mente tutti i verbi e i sostantivi che contengono il concetto di passaggio («trans»): si attraversa, si transita, si trasferiscono cose e persone, si trasloca, si trasmettono notizie, si traffica, si traducono lingue e si tradiscono culture, si traghetta e si trasgredisce, si trapianta e si trasborda. Ogni frontiera è presidio di controllo ma anche valico, luogo di passaggio che porta con sé l’ombra della sua violazione. Una frontiera è anche sempre senza frontiere. Il Vangelo immagina l’impossibile: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: Sradicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,6).

Ogni grido è lanciato per essere accolto. L’ascolto del grido del pianeta e dei poveri può renderci più umani. E uomini di fede: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). È tempo di prendersi cura, di custodire la vita, come suggerisce la preghiera laica di Erri de Luca:

Mare nostro che non sei nei cieli
e abbracci i confini dell’isola
e del mondo, sia benedetto il tuo sale,
sia benedetto il tuo fondale,
accogli le gremite imbarcazioni
senza una strada sopra le tue onde
i pescatori usciti nella notte,
le loro reti tra le tue creature,
che tornano al mattino con la pesca
dei naufraghi salvati.

Mare nostro che non sei nei cieli,
all’alba sei colore del frumento
al tramonto dell’uva e di vendemmia.
ti abbiamo seminato di annegati più di
qualunque età delle tempeste.

Mare Nostro che non sei nei cieli,
tu sei più giusto della terraferma
pure quando sollevi onde a muraglia
poi le abbassi a tappeto.
Custodisci le vite, le vite cadute
come foglie sul viale,
fai da autunno per loro,
da carezza, abbraccio, bacio in fronte,
madre, padre prima di partire
.

Il mare nostro è un desiderio di vita stampato sui volti di fratelli e sorelle che si affacciano sul Mediterraneo. Gli egoismi non ci abbandonino alla tentazione dell’indifferenza. La sete di trascendenza e di fraternità ci liberino dal male della morte procurata. Così sia.

Sacerdote, direttore Ufficio Cei Problemi sociali e del lavoro


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