La figlia unica del silenzio
sabato 28 marzo 2020

Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi,
non resta nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli arroganti,
ma nella legge del Signore trova la sua gioia,
la sua legge medita giorno e notte.
È come albero piantato lungo corsi d’acqua,
che dà frutto a suo tempo:
le sue foglie non appassiscono
e tutto quello che fa, riesce bene.
Non così, non così gli empi,
ma come pula che il vento disperde;
perciò non si alzeranno i malvagi nel giudizio
né i peccatori nell’assemblea dei giusti,
poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti,
mentre i malvagi svaniscono nel nulla.
Salmo 1

Iniziamo il commento del Libro dei salmi. Ma i salmi non si commentano. Si pregano, si cantano, si urlano. Sono troppo umani, troppo intrisi di dolore e di amore, troppo impastati di uomo e di Dio. Eppure li commenteremo, coscienti che resteremo alla periferia del loro mistero. Insieme ai Vangeli, i Salmi sono il libro più noto e tradotto della Bibbia. Sono parte essenziale e amatissima della Bibbia, anche perché sono una sorta di suo distillato, con l’aggiunta della poesia, del canto e della liturgia. In essi si incontrano i profeti, la Legge, i testi sapienziali, Giobbe – e in questi si incontrano i salmi. La composizione dei salmi ha accompagnato tutta la storia di Israele, che con essa si interseca e intreccia. I primi risalgono (almeno) all’epoca di Davide, gli ultimi giungono fino alle soglie del Nuovo Testamento. I Vangeli potrebbero essere raccontati attraverso le citazioni, dirette e indirette, dei salmi in essi contenute. Senza i salmi non capiamo il monachesimo, che nasce e rinasce dalla preghiera e dal canto dei salmi, che sono il ritmo della sua liturgia. Lutero e Calvino ne hanno scritto commenti memorabili – sta qui una singolare affinità tra Chiese riformate e monachesimo. Sono ancora il respiro della preghiera quotidiana delle comunità religiose e di milioni di credenti. L’Europa – la sua arte, la sua musica, la sua spiritualità – è stata fatta anche dalla recita e dal canto dei salmi.

Non sono trattati di teologia né di etica: sono preghiere. E come tutte le preghiere autentiche, i salmi sono nati dal dolore e dall’amore della gente, dal cuore del popolo e dalla sua fede. Parole diverse e più grandi che uomini e donne si sono ritrovate dentro come dono e poi le hanno usate per innalzare lodi, per gridare disperazioni, per non morire di dolore quando la preghiera restava l’ultimo aggancio con la vita. Le preghiere più vere non si scrivono: arrivano, si trovano, appaiono, emergono nell’anima e poi, qualche volta, arrivano fino alla cetra e al tamburello. E se è vero che la preghiera fa parte del repertorio di base dell’umano, allora tutti possiamo comprendere i salmi, tutti li possiamo cantare. Sono preghiere collettive e comunitarie anche quando il soggetto della preghiera è una persona singola. I salmi usano anche il noi, ma è l’io il protagonista del salterio. Molti salmi sono preghiere dette e scritte da un solo individuo che la comunità ha fatto diventare preghiera corale. A dirci che per edificare la comunità non c’è bisogno di cancellare le individualità in cerca di un astratto noi. Quando l’esperienza comunitaria è autentica, l’io dona le sue parole alla comunità e questa fa le diventare parole collettive lasciandole preghiera personale. L’anima collettiva non è una somma né una moltiplicazione delle individualità, ma è l’alchimia – rara e sublime – di un io che diventa noi restando io; è mutua inabitazione di ogni singola anima nell’anima dell’altro e di tutte in quella comunitaria. Il poeta compone il salmo con parole intimissime ricevute nella sua anima e nel dire "io" dice "noi"; e la comunità, usando le parole del salmista, dice "noi" con le parole di quell’"io". Non c’è commento più appropriato alla Trinità di Andrej Rublëv di un salmo scritto e cantato alla prima persona singolare.

I salmi furono composti per il culto nel tempio e per le grandi occasioni (incoronazioni), ma alcuni fiorirono dentro la normalità della vita – dal lavoro, dalla sofferenza e dai lutti. Nella Bibbia e anche oggi, sebbene noi, confusi da una idea troppi piccola di spiritualità, li cerchiamo nelle chiese o presso i liturgisti, e così non li troviamo. Non c’è nulla di più laico di un salmo, perché non c’è nulla di più laico della vita. Il Salmo 1 è anche una Introduzione all’intero Salterio. Anche per questa ragione la prima parola del primo salmo inizia con alef (la prima lettera dell’alfabeto ebraico; e l’ultima parola del salmo inizia con tau, l’ultima lettera). È una beatitudine e una benedizione, un augurio di buon cammino, un viatico per il lettore che inizia la sua meditazione del libro dei salmi. Come a dire: chi imbocca questa via sarà beato, sarà come albero robusto piantato lungo un fiume, e quindi porterà frutto. L’immagine dell’albero è molto amata dai profeti (Ezechiele, Geremia), e alcuni padri della chiesa (Gregorio Magno, Ruperto) vi videro una profezia della croce, il nuovo "albero della vita" dal frutto infinito. La beatitudine della Bibbia non è la felicità dei greci (eu-daimonia: il buon demone), neanche la Glück (fortuna) dei tedeschi né la happiness (happen: capita) degli inglesi. È invece vicina alla felicitas dei romani, dove il prefisso fe- è lo stesso di fetus, femina, ferax, a dire la natura generativa della vita buona e felice. Questa beatitudine è una promessa di portar frutto. Quei frutti che invece l’empio, il malvagio, non porta, perché le sue opere sono disperse come il vento disperde la pula, che vola via con la battitura del raccolto – vanitas, nulla, hevel: "i malvagi svaniscono nel nulla".

Questo salmo propone il bivio decisivo di fronte all’uomo che inizia il cammino nel Salterio e nella vita, l’opzione fondamentale tra la via buona del giusto e quella cattiva dell’empio. E chiede di scegliere. Ma non di usare la Bibbia e la religione per giudicare chi sono i giusti e chi i malvagi, operazione sempre molto comune, che termina sempre ponendo noi tra quelli sulla retta via. Il salmo ci dice sbagliare la scelta negli incroci decisivi significa smarrire il filo dell’esistenza e quindi non portare frutti o portarli cattivi. L’empio è infatti colui che ha sbagliato strada e che quindi si è perso. L’augurio-benedizione che apre il salterio è allora un invito a non sbagliare il primo passo. In ogni cammino il primo e l’ultimo passo sono quelli più importanti. Ma è anche augurio a non sbagliare il cammino dentro il salterio. Nei Vangeli anche Satana cita un salmo (il 91) per tentare Gesù nel deserto, a dirci che c’è anche un modo diabolico di leggere e usare i salmi. Anche gli empi camminano, anche loro errano sulle orme di Caino. Ai giusti il salmo promette fecondità, ma aggiunge: "nella sua stagione". Una frase molto simile al "giusto tempo" del capitolo 3 di Qohelet. Molte volte, quando il giusto non vede i frutti, forse, semplicemente, non è nella giusta stagione. Qualche volta la stagione dei frutti del giusto è, semplicemente, l’ultima.

Ma c’è di più. Il salmo infatti aggiunge: "riusciranno tutte le sue opere". Una promessa di ricompensa che per non essere confusa con una semplice teologia della prosperità (pur presente nella Bibbia), deve essere letta insieme a quanto leggeremo in molti altri salmi, nei profeti e in Giobbe, che ci ricordano che ai giusti non sempre riescono le loro opere, spesso finiscono sui mucchi di letame e ci finiscono non perché erano empi, ma proprio perché erano giusti. Forse è questo uno dei messaggi più forti che attraversa l’intera Bibbia. Il successo non è segnale della nostra giustizia, né l’insuccesso lo è dell’empietà. La storia è piena, ogni giorno, di giusti falliti e di malvagi che hanno successo. Noi però non smettiamo mai di sperare che esista un rapporto tra felicità e giustizia, anche se tutti sappiamo, incluso il salmista, che la vita sarebbe finta se le sventure e le fortune arrivassero in base a meriti e colpe. Ecco allora che emerge la vera natura di questi salmi di beatitudine: sono augurio e preghiera al Dio giusto che nel mondo diminuisca l’ingiustizia. Lo stesso nostro augurio e la stessa nostra preghiera, che non devono mai ad arrivare a leggere le disgrazie nostre e degli altri come punizione, che sarebbe la bestemmia più scellerata.

Chi sono, infine, gli empi? E chi i giusti? Sappiamo cosa Gesù pensava di colui che si sentiva giusto. Si entra nei salmi da empi sentendoci giusti, e, se il cammino funziona, alla fine si esce giusti sentendoci empi. Non c’è un tempo più favorevole di questo per meditare e pregare i salmi. Molti salmi sono nati nei momenti più tremendi della storia di Israele. Alcuni furono generati durante l’esilio, quando tra le antiche preghiere non se ne trovava più nessuna capace di dire l’inedito dolore per la patria perduta e il tempio distrutto. I salmi divennero un tempio mobile. Quel lungo lutto spirituale generò altre preghiere nuove, tra le più belle del salterio – chissà quanti nuovi salmi si stanno generando, oggi, nei nostri ospedali: forse i più belli non saranno raccolti e raccontati da nessuno, ma non andranno sprecati – "le mie lacrime nell’otre tuo raccogli" (Salmo 55). I salmi hanno donato nei secoli parole per pregare a chi non ne aveva più. Sono stati la prima preghiera di chi ricominciava a pregare. Qualche volta sono diventati parole prestate a chi, senza la fede, aveva però il desiderio di pregare in quei momenti tremendi quando la preghiera diventa figlia unica del silenzio. I salmi ci riportano alle pendici del Sinai, ci fanno riascoltare le parole di Mosè, attraversiamo di nuovo il mare e poi danziamo con Maria il canto della liberazione. Un solo salmo basta per imparare il senso della Bibbia e, forse, della vita. Buon viaggio.
l.bruni@lumsa.it

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