Bologna a 30 all'ora è una questione tra il sindaco e i cittadini
lunedì 22 gennaio 2024

Dei pro e dei contro dell’idea di limitare drasticamente il limite di velocità nelle città (l’avverbio non sembra esagerato: andare a 30 all’ora con un’automobile moderna è difficile, per non parlare delle moto) "Avvenire" ha già molto scritto. La scelta del sindaco di Bologna Matteo Lepore ha suscitato tante reazioni, favorevoli e contrarie, tra i suoi concittadini, ma è diventata anche un caso nazionale a causa della polemica avviata dal ministro dei Trasporti Matteo Salvini, il quale ha annunciato l’intenzione di intervenire con una sua direttiva.

È proprio questo il tema che vorremmo affrontare in questa sede, quello della politica e delle competenze. Perché, a parte l’innegabile paradosso del leader del partito autonomista per eccellenza che cala dal centro (da “Roma ladrona”, avrebbe detto Umberto Bossi negli anni ruggenti, davanti alla sorgente del Po o sul prato di Pontida) un provvedimento per arginare l’azione dei sindaci, sarebbe miope non vedere tutta la politica che c’è nel caso di Bologna.

In democrazia - che, secondo Winston Churchill e per fortuna ancora secondo molti altri, è la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre fin qui conosciute - la politica è proprio prendere decisioni che incidono sulla vita quotidiana delle persone, essendo stati eletti per farlo. Dopo di che, se quelle decisioni anziché semplificare o migliorare le vite delle persone interessate le avranno complicate o peggiorate, il politico che le ha prese si accomoderà all’uscita alle prime elezioni utili.

È quello che sta facendo, nel bene o nel male lo decideranno appunto i bolognesi quando sarà il momento, il sindaco Lepore: prende decisioni, ci mette la faccia e, politicamente parlando, rischia l’osso del collo. Lo fanno anche gli altri sindaci - alcuni più, alcuni meno - con provvedimenti di altra natura che è giusto siano di loro competenza, in quanto autorità politiche più vicine “fisicamente” ai cittadini.

Il ragionamento intercetta poco il concetto di autonomia differenziata attualmente all’esame del Senato, perché quella riguarda le regioni, ma ha molto a che vedere con la libertà e l’autonomia dei territori e dei loro cittadini. Approfittiamo perciò volentieri dell’anniversario ancora “caldo” del 18 gennaio, data in cui nel 1919 don Luigi Sturzo lanciò il suo appello «ai liberi e forti» fondativo del Partito popolare, per ricordare che il prete di Caltagirone (città di cui fu anche vicesindaco) considerava i Comuni i luoghi dove matura veramente la democrazia. Un processo aiutato in tempi più moderni dalla legge sull’elezione diretta dei sindaci, entrata in vigore ormai più di 30 anni fa e mai messa in discussione, quasi un miracolo per un Paese in cui le regole si fanno e si disfano in continuazione a seconda delle maggioranze del momento. Segno evidente che quel sistema gode della legittimazione di tutte le parti e da tutte è considerata uno strumento di democrazia che funziona. Si può dire che è la miglior legge elettorale vigente in Italia, in quanto tiene insieme in maniera equilibrata le esigenze di rappresentatività e di governabilità, pur non potendo essere applicata sic et simpliciter alla scelta del governo nazionale, perché il presidente del Consiglio non è il sindaco di una città e il Parlamento non è un Consiglio comunale.

Ma quanto si fa, decidendo e scegliendo, nelle giunte e nei consigli comunali, è politica eccome. Buona, cattiva, così così o pessima. Politica nella sua forma più pratica e comprensibile a tutti. Non è, o almeno non può esserlo fino in fondo, un semplice galleggiare da un’elezione all’altra, limitando le insidie incluse nella funzione di governo nella speranza di portare a casa la vittoria anche al prossimo turno. Né può essere semplice tattica, consumata in scissioni e ricomposizioni di partiti, o ancora mera esposizione di slogan e polemiche su un palco, in tv, sui social. Il sindaco Lepore ha preso una decisione ben precisa e a prima vista non popolare, sapendo perfettamente di non poter poi sfuggire (lui o, se non sarà nuovamente candidato, la sua parte politica) al giudizio degli elettori cittadini. Ai bolognesi quindi, e possibilmente non al ministro, l’ardua sentenza.

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