mercoledì 27 gennaio 2010
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C’è qualcosa in comune fra Bettino Craxi, Nichi Vendola ed Emma Bonino, a parte l’appartenenza al genere umano e lo svolgimento per professione dell’attività politica? La domanda può apparire paradossale, incrociando l’attualità delle faide interne al centrosinistra con un noto personaggio del recente passato italiano, oggi in via di dibattuta riabilitazione. Ma a essa vi è una risposta positiva che sottolinea una anomalia italiana che ha le sue radici negli anni Ottanta e che si è sorprendentemente trasmessa alla cosiddetta Seconda Repubblica.Contrariamente a quanto molti credono, il bipartitismo non è la regola dei sistemi politici contemporanei. Esso è, anzi, in crisi proprio in quei sistemi Westminster (Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda) di cui è stato un tratto caratterizzante per buona parte del Novecento. È invece un dato comune la formazione di coalizioni fra partiti che aspirano a governare assieme, sia che tali coalizioni si formino prima sia che nascano dopo le elezioni. E in una coalizione, si pone, fra gli altri, il problema di individuare chi dovrà guidarla. Al riguardo vi è una regola che trova applicazione quasi universale: quella secondo cui il leader della coalizione di governo è espresso dal partito principale di essa. Cosí, in Germania, Angela Merkel guida una coalizione con i liberali perché il suo partito ha ottenuto il 33% contro il 15 della Fdp, così come guidava la precedente "Grande coalizione" perché nel 2005 i due partiti democristiani avevano preceduto di mezzo punto la Spd di Schröder. Esempi simili si possono trovare nei Paesi scandinavi, in Ungheria, in Scozia e in Catalogna, per citare esempi tanto di Stati sovrani che di enti simili alle nostre Regioni.A lungo questa è stata la regola anche in Italia: dal 1945 al 1981 i presidenti del Consiglio furono democristiani nonostante che la Dc non avesse (salvo che nella I legislatura) i numeri per governare da sola. Ma era il "partito di maggioranza relativa" e gli alleati – che pure utilizzavano il potere di veto su questo o quel leader democristiano – non contestavano che la presidenza andasse alla Dc. La regola saltò negli anni Ottanta, dapprima con Spadolini (1981-82), poi con Craxi (1983-87) e con Giuliano Amato (1992-93). Fu il leader socialista a teorizzare l’«alternanza» alla guida del governo fra dc e socialisti, in base all’idea che essa avrebbe dovuto surrogare l’alternativa fra moderati e sinistre, ritenuta impraticabile per il ruolo del Pci.Ma con l’alternanza craxiana si incrinava il nesso fra consenso, potere e responsabilità che caratterizza le democrazie rappresentative: i socialisti acquisivano un potere politico sproporzionato al consenso e forse sta qui una delle ragioni dell’impopolaritá che li travolse all’inizio dello scorso decennio. Il loro potere non era percepito come democraticamente fondato e quindi come revocabile in forme democratiche.Dalla Prima Repubblica il costume di attribuire la guida del governo a un esponente di un partito minore si è trasferito alla seconda. Il caso di Romano Prodi, leader vittorioso nel 1996 e nel 2006, nonostante non fosse espressione del principale partito della coalizione (Pds poi Ds), può in fondo essere inquadrato in questa logica, così come le ragioni di questo fenomeno vanno individuate nei residui problemi di legittimazione del partito erede della tradizione comunista. Al tempo stesso, però, vi era una differenza con gli anni Ottanta: la coalizione da mero «accordo» era divenuta un «soggetto», con un proprio leader e un programma, distinto dai partiti, anche se debole.Oggi Bonino e Vendola impongono – in modi diversi – dall’esterno al Pd le loro ambizioni di leadership in due grandi regioni italiane, in una fase in cui non esistono piú le coalizioni-soggetto degli anni 1994-2008. La legittimità democratica – e la plausibilità logica – di questo tipo di operazioni si prestano a forti dubbi. Al tempo stesso tutto ciò è la punta dell’iceberg di una crisi. Quella del Pd, che appare ormai un personaggio in cerca d’autore.
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