martedì 11 ottobre 2022
Assegnare sovranità di spesa alle Regioni in ambiti come istruzione, territorio o ambiente può creare forti squilibri tra le aree del Paese e far perdere risorse dove c’è meno efficienza
Una delle possibili ricadute negative dell'"autonomia differenziata" riguarda la gestione delle risorse per l'istruzione

Una delle possibili ricadute negative dell'"autonomia differenziata" riguarda la gestione delle risorse per l'istruzione - Ansa

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C’è un fantasma che si aggira per il Parlamento appena eletto e non ancora insediato e nelle “stanze dei bottoni” dove i ministri di Mario Draghi completano il trasloco, facendo spazio ai nuovi titolari del nascente governo Meloni. Un fantasma non sferragliante, ma discreto, quasi nascosto eppure tenace, e insidioso per l’uguaglianza tra il più ricco Nord e il più povero Sud di un’Italia che, a Nord come a Sud, scopre nuove povertà e nuove disuguaglianze. Il nome della questione non aiuta a capire, ci parla di «autonomia differenziata» e suona anche bene, ma in sostanza vuol dire che funzioni che oggi appartengono allo Stato nazionale, come istruzione, ambiente e territorio, saranno trasferite alle Regioni che ne faranno richiesta insieme alle risorse necessarie.

Chi sarà in grado di spendere di meno, cioè di essere più efficiente, avrà anche un gruzzoletto da utilizzare a piacer suo. Può sembrare anche un bel progetto, peccato che il calcolo per distribuire le risorse – vera chiave del sistema di quest’«autonomia differenziata» – rischia di essere la media pro capite nazionale, che come tutte le medie non centrerebbe il problema. Perché Regioni come la Basilicata dove la sanità costa di più per motivi storici e territoriali, dovrebbero accontentarsi della media; mentre Regioni come la Lombardia, dove la maggiore efficienza rispetto al resto d’Italia abbassa il costo medio, incasserebbero di più e ci farebbero anche la cresta.

In parole semplici, è questo il meccanismo che rischiamo di introdurre nel nostro Paese. Di «autonomia differenziata», introdotta con la riforma costituzionale del 2001 approvata di forza (per pochi voti) dal centrosinistra e ratificata dal referendum confermativo, si parla da un quarto di secolo, ma negli ultimi anni, c’è stata una accelerazione. Soprattutto da quando tre Regioni, due di centrodestra a guida leghista, come Lombardia e Veneto e una di centrosinistra a guida Pd, l’Emilia Romagna, hanno promosso referendum consultivi e deliberazioni delle rispettive Assemblee regionali per battere cassa e avere quanto previsto dalla Costituzione. Obiettivo: la “devoluzione”, ovvero il trasferimento di importanti funzioni e relative risorse misurate con criteri sui quali ancora non c’è un accordo preciso e finanziate con una percentuale dell’Irpef versata dai propri residenti.

La mossa delle tre Regioni “ribelli” in prima battuta ha ottenuto, nel febbraio del 2018, la firma di altrettanti protocolli solenni con il Governo e, successivamente, ha dato impulso al progetto di una legge quadro che adotti definitivamente nel nostro ordinamento l’«autonomia differenziata » in ossequio al dettato della Costituzione. C’è da preoccuparsi? Almeno c’è da stare in guardia. Perché appena il 29 giugno scorso Mariastella Gelmini, ministra per gli Affari regionali e le Autonomie, rispondendo all’ennesimo question time leghista, assicurò che il disegno di legge quadro, dopo commissioni di studio parlamentari, audizioni e limature, era pronto per essere approvato in tempi rapidi. Inoltre l’«autonomia differenziata» sta in bella vista nel programma elettorale comune del centrodestra. Senza contare che la Lega, delusa dal risultato elettorale e probabilmente anche in alcune sue aspirazioni ministeriali, rivendica proprio il Ministero “autonomista” e intende portare a casa questa vittoria concreta, spinta anche dal “partito del Nord”, guidato dal presidente del Veneto, Luca Zaia.

Sarà bene tenere sotto controllo il cammino di questo progetto, che il Parlamento dovrà approvare a maggioranza assoluta, cioè con legge rinforzata. Perché è vero che, in termini astratti, avvicinare la spesa al territorio può essere considerato per certi versi positivo, ma è vero anche che funzioni e servizi pubblici come quelli dell’Istruzione, una volta regionalizzati, metterebbero a rischio la tenuta dei programmi e degli indirizzi con un prevedibile effetto caos per la nostra povera eppure importantissima scuola. Detto ciò tuttavia in questa sede ci interessano gli effetti economici. Per capirli bisogna considerare che oggi le spese per Istruzione, Territorio e Ambiente, sono gestite e programmate. Il risultato è che in ogni Regione affluiscono delle risorse in base a una programmazione e criteri uniformi sul territorio nazionale. Le Regioni non hanno alcuna voce in capitolo sul modo in cui questi soldi vengono ripartiti tra gli Enti pubblici di competenza. L’idea leghista è che questo sistema non va bene e che ogni Regione debba avere un assegno annuale prestabilito sulla base di un criterio statistico e che poi, un po’ come succede per la paghetta degli adolescenti, che, se finiscono i soldi, si arrangiano e se, invece ne hanno in avanzo, li spendono come vogliono. Chiaro no? I più forti ed efficienti, ovvero le Regioni collocate nelle zone ad alto capitale umano e tecnologico, saranno in grado di risparmiare magari anche in modo virtuoso, le povere Regioni del Sud per stare dentro i parametri cominceranno a tagliare e, se avverrà nel campo della scuola e della difesa del territorio, si verranno a cumulare grandi disparità e situazioni di degrado e di rischio ambientale.

Il punto centrale della vicenda è il criterio con cui assegnare le risorse, il che significa come misurare i costi dei servizi in ogni Regione. Su questo si discute da tempo. Un criterio sono i “costi storici” e, se attuato, non cambierebbe nulla rispetto a oggi. Un altro criterio è la media pro capite che è delineato nei protocolli con le Regioni del 2018, nel caso in cui non si dovesse arrivare in tempo utile alla stima dei costi standard, e – come detto – sarebbe fortemente discriminatorio per il Sud; Infine, coi sono i cosiddetti costi standard, difficile esercizio statistico volto a “prezzare” ogni singolo servizio, che dovrebbero essere la soluzione finale ma sui quali pesano grandi interrogativi sulla capacità di una realistica valutazione.

Al momento l’ultima bozza di legge quadro sull’«autonomia differenziata» dice che il calcolo si farà con i costi standard, ma finché non saranno pronti si userà la spesa storica, mentre – come accennato – le intese con le tre Regioni fanno riferimento alla spesa media pro capite. Bisognerà fare attenzione perché, come ha calcolato Leonzio Rizzo, economista all’Università di Ferrara, redattore de “lavoce.info” e tra i maggiori esperti della materia, 3 miliardi e 383 milioni ogni anno passeranno dalle Regioni che ci perdono, prevalentemente quelle del Sud a quelle che ci guadagnano, prevalentemente del Nord. E nel dettaglio Lazio, Campania e Calabria dovrebbero cedere ogni anno, e per sempre, 2,7 miliardi a Emilia Romagna, Lombardia e Veneto. Non se ne è parlato abbastanza, perché l’argomento è ostico, ma il problema c’è. E non è affatto piccolo, anzi in una stagione di disuguaglianze crescenti può diventare esplosivo.

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