Il no all’amichevole a Gerusalemme
giovedì 7 giugno 2018

Ma sì, in fondo è solo un’amichevole, avranno pensato a Buenos Aires. Quando mai ci è venuto in mente di organizzarla. E tenerla poi a Gerusalemme. Ci sono anche le minacce a Messi e consorte, quindi ragioni di sicurezza più che giustificate. Insomma, non facciamo una tragedia per una partita di calcio. Tragedia no, per carità, ce ne sono già troppe in Medio Oriente. Ma una riflessione seria sulla brutta figura fatta dall’Argentina, che ha cancellato la partita prevista della propria nazionale contro quella di Israele dopo le animate proteste palestinesi, è certo il caso di farla.

Perché quando entra in campo (metaforicamente o meno) Israele, ecco che scatta il meccanismo del rifiuto a partecipare, del boicottaggio o della paura che vi siano ritorsioni. Per decenni, il conflitto israelo-palestinese, in particolare durante la Guerra Fredda, è diventato un campo ideologizzato di battaglia, oltre le singole ragioni e i torti. Così, se nei circoli politici di Washington Israele aveva sempre ragione per il semplice fatto di essere Israele (una posizione portata all’estremo oggi dall’Amministrazione Trump), per altri Israele aveva sempre torto. Per il semplice fatto di essere Israele.

Innumerevoli sono state le campagne di boicottaggio dei prodotti israeliani per protestare contro l’oppressione dei palestinesi, con il risultato che, spesso, i primi a essere colpiti fossero proprio i lavoratori arabo-israeliani o palestinesi delle aziende coinvolte. Ancora più odiose le campagne promosse da docenti e ricercatori universitari a partire dallo scorso decennio per boicottare le università e i centri di ricerca israeliani, invitando a interrompere le collaborazioni, a non invitare i docenti e a non partecipare a eventi da loro promossi. Una mossa che doveva spingere a una revisione delle politiche del governo israeliano, ma che si è risolta – come era facile prevedere – in una sterile polemica, giustamente bollata "retrograda" e controproducente.

Non solo perché colpiva gli ambienti più liberali e aperti di quel Paese, quali sono le università israeliane, ma perché offriva il fianco alle accuse di essere pregiudizialmente ostili al popolo ebraico, favorendo paradossalmente la propaganda della destra israeliana più estrema. In effetti, non ci si ricorda di campagne per boicottare le università di altri paesi del Medio Oriente, neppure quelle delle peggiori dittature. Il che non significa che non si abbia il diritto/dovere di criticare anche aspramente quelle decisioni del Governo israeliano che sembrino sbagliate – come anche chi scrive ha fatto spesso dalle pagine di questo giornale. Criticare sì, rifiutare l’incontro e la discussione a priori mai.

E, per tornare alla partita mancata fra Israele e Argentina, le goffe giustificazioni delle autorità di Buenos Aires hanno solo peggiorato questa brutta figura: suona patetico che i calciatori fossero spaventati al punto di rifiutarsi di partire, quasi fosse stato chiesto loro di giocare ad Aleppo, in Siria, o nelle province controllate dai taleban in Afghanistan. In verità, i primi ad aver voluto politicizzare l’evento sono stati proprio gli israeliani, chiedendo di spostare l’incontro da Haifa a Gerusalemme, città simbolo ora più che mai del duro confronto israelo-palestinese.

Ma una volta accettata la proposta, probabilmente con troppa superficialità, la scelta peggiore è stata cedere alle proteste e alle minacce. Riproponendo l’«eccezionalismo» di Israele nel sistema politico internazionale.Questa propensione al rifiuto di Israele nello sport e nella cultura, paradossalmente, continua proprio quando a livello politico la questione palestinese gode ormai di un sostegno minimo.

Anche (e forse soprattutto) all’interno del mondo arabo. Con il processo di pace ormai morto, i palestinesi divisi, il Medio Oriente dilaniato da una guerra civile settaria e forte di un sostegno incondizionato da parte di Washington, il governo israeliano da anni mostra una crescente durezza, e a volte vera tracotanza, nelle proprie decisioni. Non bisogna desistere dal criticarne gli errori e gli eccessi nei confronti dei palestinesi, ma se c’è una via moralmente sbagliata e politicamente controproducente è proprio quella di tornare ai boicottaggi, ai doppi standard e ai distinguo. Non è certo così che si rilancia la discussione, pur ineludibile, sui diritti di un popolo ancora senza Stato come quello palestinese. E neppure sullo status di Gerusalemme, città di tutte le fedi. Non solo di una.

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