domenica 15 novembre 2015
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Dinanzi a una strage di queste proporzioni, attoniti guardando la scia di sangue che ha attraversato Parigi sconvolgendone la vita quotidiana, a tutto potremmo credere tranne che questo attacco sia un segnale di debolezza dello Stato islamico (IS). La malefica efficienza del commando, la sincronicità degli attacchi, la determinazione dei suoi membri nel giustiziare civili inermi, il computo dei morti... tutto ci sottolinea la pericolosità e la forza del jihadismo sunnita. Ma il successo evidente di questo atto di terrore non deve nascondere un equilibrio strategico in Medio Oriente che sta lentamente – troppo lentamente – evolvendo a svantaggio del califfato. Da qualche tempo si rincorrevano le voci e i timori per una possibile azione terroristica in Europa; ne aveva parlato lo stesso ministro dell’Interno francese poco prima dell’attacco. Timori che si basavano sull’azione delle nostre intelligence, ma anche dell’analisi del comportamento dell’Is. Al califfo occorreva un successo nella guerra contro il 'nemico esterno' proprio per bilanciare gli insuccessi sul fronte interno in Iraq e Siria, seguendo la logica tipica dell’uso mediatico del terrore che ha sempre contraddistinto chi combatteva in nome del 'jihad globale'. Da mesi le milizie dell’Is sono bloccate a difesa del loro immaginato nuovo califfato, ma mostrano segni di crescente vulnerabilità. Nel centro dell’Iraq le milizie sciite hanno ripreso il controllo di tutte le parti sciite del Paese e di alcuni snodi strategici. Ramadi è pressoché assediata, anche se le truppe irachene si muovono con molta circospezione. Subito prima degli attentati di Parigi era caduta nelle mani curde l’importante cittadina di Sinjar. I bombardamenti della coalizione, per quanto sempre attenti a non colpire i civili, si stanno facendo più efficaci e mirati, accompagnando una campagna militare che mira a riconquistare Mosul e Ramadi, eventi che provocherebbero il crollo del fronte iracheno per gli jihadisti. Fattore più ancora preoccupante per il califfo è la riduzione nell’afflusso di combattenti, in parte resi più cauti dalla durezza degli scontri, in parte per via della minore libertà di circolazione da e per il Levante di cui essi hanno goduto per anni. Per quanto ancora ambigui e poco affidabili, i governi di Turchia e Arabia Saudita hanno rafforzato le misure antijihadisti, ponendo fine a quel lassismo che aveva portato a battezzare la Turchia come «l’autostrada del jihad». E in Siria, il sostegno russo alle esauste forze militari governative ha reso più incerto lo scenario strategico. Non era quindi inimmaginabile che l’Is rispondesse sparigliando le carte, come hanno spesso dimostrato di saper fare: colpire altrove e possibilmente in Europa. Perché un successo da noi produce effetti a catena. Innanzitutto, si ottiene un successo mediatico che è alla base dell’impetuosa ascesa di questo movimento quale 'premium brand' del terrorismo jihadista e che ne rilancia l’immagine presso gli ambienti islamisti radicalizzati. Il che significa nuovi adepti e nuovi volontari. Si allontana poi l’attenzione dal fronte interno e si spera di fiaccare la volontà occidentale nel continuare i bombardamenti della coalizione. In realtà, se la carneficina di Parigi ha centrato facilmente i primi due obiettivi, è improbabile che porti al conseguimento dell’ultimo, ossia indurci a smobilitare il nostro impegno in Medio Oriente. Anzi, porterà inevitabilmente al contrario. Paradossalmente, la Francia è stato uno dei Paesi più restii a impegnarsi nel Levante contro l’Is; non è un mistero per nessuno la vicinanza di Parigi alle posizioni delle monarchie arabe del Golfo. Amicizia forse condizionata dal bisogno degli investimenti dei ricchi fondi sovrani di quelle monarchie. Ma la risposta ora non potrà che essere un impegno rafforzato nella lotta all’Is. Per quanto conoscano bene l’Occidente, i jihadisti cadono sempre nello stesso errore, quando affermano che noi siamo deboli e timorosi e che basta colpirci duramente per indurci al ritiro. È probabilmente vero – e la l’assurda politica europea in Siria di questi anni lo ha dimostrato – che gli europei sono farraginosi, divisi, timorosi e restii all’azione. Ma quando veniamo sfidati a questi livelli, siamo quasi costretti a reagire e a dare il meglio di noi stessi. Dallo scoppio della guerra civile in Siria abbiamo fatto molti errori e la responsabilità è stata soprattutto di Parigi e Londra (più ancora che di Washington). Si è colpevolmente sottostimata la penetrazione degli islamisti radicali nell’opposizione al tiranno Assad (ma non da questo giornale, che è stato fra i primi a evidenziarla). Non si ricorda mai abbastanza come la risposta militare non rappresenti la risposta 'vincente', tanto più se non è accompagnata – e sostituita appena si può – da iniziative politiche e socio-culturali di contro-radicalizzazione. Ma è tempo di dare un segnale forte in Medio Oriente contro il jihadismo e contro tutti quelli che mantengono un’ambiguità di fondo nei suoi confronti. E ciò significa risolvere la partita siriana politicamente, 'imbarcando' nella ricerca di una soluzione, anche Iran e Russia, come è sembrato accadere ieri a Vienna sull’onda dei fatti parigini. La cosa continua a non piacere a Turchia e Arabia Saudita. L’Occidente faccia capire loro che a noi piacciano ancor meno quegli orrendi figuri che da essi sono stati a lungo tollerati e blanditi. Sono questi ultimi il primo nemico contro cui dobbiamo ora combattere. 
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