martedì 26 aprile 2011
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Appare sempre più feroce, ma anche sempre meno decisiva e più sconclusionata la repressione in Siria. Dopo settimane di scontri e centinaia di morti accertati, il regime di Bashar al-Assad appare molto lontano dall’aver ripreso il controllo della situazione. Cecchini che sparano sulla folla durante i funerali dei "martiri", carri armati in azione a Deraa si alternano all’annuncio della revoca del pluridecennale stato d’emergenza. La sensazione è che, a fronte del composito panorama di oppositori, che si allarga di giorno in giorno, anche il regime si stia articolando in una pluralità di posizioni non ancora a lungo sostenibile. L’esito inatteso di tutto ciò, ma comunque il meno improbabile, potrebbe essere la caduta del dittatore in seguito a un "golpe bianco", forse l’unica alternativa al vero sgretolamento del regime. I segnali che giungono da Damasco parlano infatti di una frizione crescente all’interno della famiglia di Assad, il quale sarebbe più propenso di zii, cugini e fratelli a intraprendere la via di qualche timida riforma, ma anche più indebolito a mano a mano che la protesta dilaga.Il silenzio della comunità internazionale, in particolare dell’Occidente, può apparire assordante, rispetto al clamore delle pressioni esercitate nei confronti di Ben Ali, Mubarak e Gheddafi. Eppure, il regime siriano è sicuramente più sanguinario di quello tunisino o egiziano e per di più spiccatamente antioccidentale. Anzi, proprio dell’esibito antiamericanismo, e della polemica rabbiosa contro la Francia, insieme ovviamente all’ostilità aperta nei confronti di Israele, gli Assad hanno sempre fatto uno dei principali strumenti di propaganda interna e internazionale. Americani e francesi, oltre tutto, hanno una partita aperta con Damasco sul Tribunale Speciale per il Libano (incaricato di far luce sull’omicidio dell’ex premier Rafik Hariri, avvenuto nel 2005) e masticano ancora amaro per aver perso influenza su Beirut proprio a favore dell’asse Teheran-Damasco. Non sono quindi oscuri, imbarazzanti legami a spiegare la cautela occidentale; ma semmai le gravi incognite di un repentino regime change in un Paese così decisivo per il precario ordine del Levante. Sia Washington sia Parigi temono che in caso di crollo del regime potrebbero esserci evoluzioni imprevedibili ma negative tanto all’interno del Paese quanto nell’intera regione. La natura della protesta siriana appare infatti decisamente più "orientata religiosamente" di quelle fin qui viste all’opera, dall’Egitto alla Tunisia. Proprio il carattere quasi totalitario della dittatura baathista, infatti, ha contribuito a far piazza pulita dei dissidenti più laici lasciando ai Fratelli musulmani il monopolio dell’opposizione clandestina. Dagli avvenimenti siriani dipende poi direttamente il precario equilibrio libanese, la cui coalizione di governo (composta dai cristiani maroniti di Aoun, dai Drusi di Jumblatt, dagli sciiti di Amal e soprattutto da quelli di Hezbollah) è appoggiata dalla Siria (oltre che dall’Iran) e ipoteca il ritorno dell’egemonia damascena sul "Paese dei Cedri", che quasi metà dei libanesi vede di buon occhio e poco più di metà avversa apertamente. Difficile immaginare che un crollo del regime in Siria non finirebbe con l’alimentare la tentazione di una resa dei conti finale in Libano, tra Hezbollah e i suoi molti nemici. Come ha efficacemente spiegato su Avvenire Riccardo Redaelli qualche giorno fa, anche l’Iran è costretto al silenzio, a causa dell’imbarazzo di dover comunque sostenere il suo principale alleato strategico, mentre reprime un’opposizione che si raduna nelle moschee e marcia al grido di "Allah al Akbar"... E l’atteggiamento iraniano riflette quello delle autorità israeliane, che preferiscono di gran lunga avere a che fare con il regime baathista, tanto più se indebolito per le proteste interne, piuttosto che con l’eventualità di un successo dei Fratelli Musulmani anche a Damasco, dopo Gaza (nella versione Hamas), e magari prima del Cairo e di Amman. Un simile scenario rappresenterebbe evidentemente per Tel Aviv un incubo strategico della peggior specie. Se poi, a tutti questi attori interessati in un modo o nell’altro e spesso per motivi opposti, alla sopravvivenza politica di Assad, aggiungiamo la Turchia di Erdogan, che ha fatto delle sue relazioni con la confinante Siria un perno importante della sua nuova politica mediorientale, si spiega fin troppo bene la cautela del mondo di fronte alla rivolta siriana.
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