Il genocidio ruandese “Patrimonio dell'umanità”. Che cosa significa
lunedì 2 ottobre 2023

La recente decisione di inserire nella lista Unesco quattro memoriali dei massacri avvenuti durante il genocidio ruandese del 1994 riporta alla mente una celebre frase di Sepúlveda: «Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro». Il fatto che la memoria di quel genocidio sia resa “Patrimonio dell’umanità” esprime la decisa volontà di custodire in modo indelebile il ricordo di un’immane tragedia accaduta quasi trent’anni fa: un milione di morti in soli 100 giorni, una vittima ogni 7 minuti. Una scelta del genere non può che essere salutata con grande favore. Tra i siti selezionati, la famosa chiesa di Nyamata, teatro di uno dei massacri più orrendi di civili tutsi. Al suo interno sono ancora accatastati gli scheletri di 50mila persone trucidate nella zona.

Ibuka, una rete di organizzazioni della società civile ruandese, ha dichiarato che i quattro memoriali possono rappresentare «un simbolo di solidarietà universale e uno strumento significativo per prevenire il genocidio e combattere la negazione». Tutto vero. Evitare che la polvere del tempo o della convenienza politica si depositi su fatti come questi e ne occulti il valore è un’operazione imprescindibile, affinché l’umanità non torni a ripetere gli stessi errori. Specie in un’epoca, come l’attuale, in cui prevale sempre più una memoria “a breve termine”. Tutto questo, però, non basta. Guardare in faccia il male è un passo necessario, ma non può essere l’unico. Il rischio è quello di inchiodare gli occhi delle persone alla terra. Ricordare il genocidio del Ruanda soltanto in negativo potrebbe indurre l’opinione pubblica alla rassegnazione e al cinismo: l’uomo sa (solo) fare il male e, se vuole, è persino capace di arrivare alle soglie dell’autodistruzione. La lista delle tragedie del 900 è lunga: il genocidio degli Armeni; l’Holodomor contro gli ucraini, scatenato da Stalin; la Shoah; le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki; le carestie imposte da Mao (costate milioni di morti, sebbene poco conosciute); i campi di Pol Pot in Cambogia… E, nel nuovo millennio, tra gli altri, l’11 settembre.

Far memoria non può ridursi, quindi, a congelare il ricordo del male. In un articolo sulla Civiltà Cattolica dell’aprile scorso, il gesuita ruandese Marcel Uwineza narra dello sconcerto che un teologo, anch’egli ruandese, durante un incontro con la stampa cattolica in Austria, seminò nei suoi interlocutori. Alla domanda «Quale immagine sceglierebbe per rappresentare l’attuale situazione in Ruanda?», rispose, infatti: «Un cimitero e un cantiere». Illuminante il commento di Uwineza: «Un cimitero, poiché ogni collina è stata bagnata dal sangue di innocenti. Ma anche un cantiere, perché stiamo cercando di ricostruire il Paese per colmare le voragini della disperazione». Il cantiere del nuovo Ruanda, in verità, iniziarono a costruirlo – già durante il genocidio – uomini straordinari quali Paul Rusesabagina, immortalato in Hotel Ruanda, il missionario barnabita Mario Falconi, che portò in salvo più di tremila tutsi, il console onorario d’Italia Pierantonio Costa... Con loro, la coraggiosa Jacqueline Mukansonera che, benché hutu, correndo enormi rischi, nascose l’infermiera Yolande Mukagasana in casa sua. E molte altre donne.

Nei tremendi giorni del genocidio, la Chiesa ruandese - che pure ha pagato un prezzo altissimo in termini di vite umane - si è accorta, con enorme sconcerto, di non essere immune dal virus del tribalismo. Ciononostante, ha saputo offrire splendide, memorabili testimonianze di coraggio evangelico e amore per i nemici. Fino alla fine. Ebbene: nelle pieghe di ogni pagina tragica del passato si nascondono bellissime storie di resistenza, abnegazione, finanche di eroismo. Sempre. Basta saperle cercare. Mi ha colpito, visitando di recente il Memoriale della Resistenza tedesca a Berlino, conoscere da vicino le vicende di donne e uomini che, pur nella tempesta del nazismo, hanno saputo camminare “in direzione ostinata e contraria”: non solo i giovani della Rosa Bianca, ma anche i membri dell’Orchestra Rossa o figure splendide come Otto Wiedt, al quale da poco è stato dedicato un piccolo, interessante museo a poca distanza da Alexanderplatz.

Come ha scritto su queste colonne il 24 gennaio 2020 Raul Gabriel, «la Memoria ha senso se diventa antidoto. E diventa antidoto solo se tocca la carne dell’esistenza di ognuno». Specie nei confronti delle giovani generazioni, va testimoniato con convinzione che è possibile seminare il bene anche nelle circostanze più avverse. Annota Alessandro Grittini, insegnante-scrittore, nella postfazione al suo recente romanzo per ragazzi Costellazione Kurt (Itaca), con cui s’è classificato secondo al Premio Bancarellino 2023: «L’uomo può sempre trovare il coraggio di sfidare il male, di rimanere umano anche in situazioni che di umano conservano ben poco, perché le risorse di bene del suo cuore sono infinite». È così. Tutti noi adulti - in famiglia, a scuola, in oratorio - dovremmo ricordarcene. E ricordarlo a chi verrà dopo di noi.

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