Arriva il primo frutto: due vescovi scelti insieme
sabato 13 aprile 2019

Per la prima volta dopo l’Accordo provvisorio tra Santa Sede e Cina del settembre 2018, sono stati 'eletti' due nuovi vescovi cinesi. A Ji Ning, in Inner Mongolia, si tratta di Yao Shun, nato nel 1965 e ordinato sacerdote nel 1991, attualmente vicario generale. A Hanzhong, nello Shaanxi, a essere 'eletto' vescovo coadiutore – alla presenza del vescovo di Xi’An, Dang Mingyan – è stato Xu Hong Wei che ha studiato a Roma, ha avuto anche un’esperienza pastorale in Canada ed è apprezzato per capacità intellettuali e profondità spirituale.

Entrambi gli 'eletti' erano già stati individuati dalla Santa Sede come i candidati più adatti per queste due diocesi ed è certamente questo l’elemento più importante. Che gli 'eletti' siano i candidati di Roma è infatti decisivo, dopo tanti anni di proteste per la separazione dei cattolici cinesi dalla Chiesa universale. Queste due 'elezioni' fanno cominciare in modo positivo l’implementazione dell’Accordo provvisorio stipulato per mettere fine alle ordinazioni illegittime che hanno diviso dolorosamente la Chiesa in Cina per sessant’anni. Solo un dialogo diretto tra le due parti poteva mettere fine a questa dolorosa situazione e, dopo quarant’anni di tentativi, si è giunti finalmente a un’intesa.

L’Accordo però non era stato finora applicato. Ora invece comincia a produrre effetti concreti. Si conferma ancora una volta la necessità con la Cina di rispettare i tempi lunghi, come molte volte papa Francesco ha raccomandato. «I cinesi – ha detto nel giugno 2018 – meritano il premio Nobel della pazienza, perché sono bravi, sanno aspettare, il tempo è loro e hanno secoli di cultura [...] qualcuno dice sono i tempi cinesi. Io dico che sono i tempi di Dio, avanti, tranquilli».

È una raccomandazione importante, anche alla luce dell’impazienza di quanti negli ultimi mesi hanno denunciato ancora una volta l’inaffidabilità delle autorità cinesi. Indubbiamente, non sono mancati nuovi problemi e ce ne sono altri che attendono da tempo di essere risolti. È il caso ad esempio della distruzione di una chiesa nello Shaanxi che qualcuno ha presentato come una forma di pressione per obbligare i sacerdoti di una diocesi ad aderire all’Associazione patriottica. Ma è un’interpretazione forzata, visto che nella stessa area sono state distrutte anche moschee e ville lussuose, perché in contrasto con regole edilizie. Un altro problema di cui si è parlato è quello del vescovo clandestino di Mindong, Guo Xijin, ora ausiliare dell’altro vescovo, Zhan Silu. Le autorità si erano impegnate a riconoscerlo e ci sono stati contatti in questo senso, tanto che Guo è stato invitato anche a far parte della Conferenza episcopale (non riconosciuta da Roma).

Ma Guo ha preteso che venisse tolto ogni riferimento all’«indipendenza» della Chiesa in Cina. Si tratta indubbiamente di un termine ambiguo, anche se dopo la firma dell’Accordo, alla parola indipendenza riferita alla Chiesa cattolica in Cina nessuno può più attribuire il significato forte che ha avuto nei primi decenni dopo la rivoluzione maoista.

Qualcuno ha visto in questi problemi un fallimento dell’Accordo e ha scritto addirittura che Pechino sta vincendo su Roma, come se fosse in corso una partita o, peggio, una guerra. In realtà, come ha sottolineato fin dall’inizio il cardinale Parolin, l’Accordo non pretende di risolvere tutti i problemi e non costituisce un punto di arrivo, bensì di partenza. Questo patto bilaterale rappresenta un evento di portata storica, come ha affermato il cardinale Filoni, prefetto del dicastero delle missioni, che perciò non può essere valutato alla luce di eventi contingenti e per di più estranei al suo oggetto specifico (la nomina di nuovi vescovi). Per tentarne un primo giudizio bisogna attendere la sua applicazione, che è appena agli inizi.

Ma molti hanno fretta. Sono quelli che sperano nel suo fallimento e che si stanno attivando perché alla sua scadenza – è un accordo provvisorio stipulato solo per alcuni anni – non venga rinnovato. Bisogna invece sperare nella sua realizzazione perché solo così è possibile allontanare definitivamente l’incubo di uno scisma nella Chiesa cinese, percepito come un pericolo imminente fino a poco tempo fa e di cui ora, fortunatamente, non si vede alcun indizio (neanche da parte dei 'clandestini').

Se l’Accordo fallisse la condizione dei cattolici precipiterebbe e diverrebbe di estrema gravità, pregiudicando la possibilità di rilanciare l’evangelizzazione in Cina. Sarebbe così la quinta volta nella storia – dopo la missione dei monaci siriani nel VII secolo, dei francescani nel Medioevo, dei gesuiti in età Moderna e delle congregazioni missionarie tra Otto e Novecento – che la Chiesa cattolica fallisce nel suo compito in questo grande Paese.

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