mercoledì 9 marzo 2011
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La rivolta popolare che ha determinato, con sfumature diverse, il ribaltone politico-istituzionale nel Nord Africa e più in generale nel mondo arabo, pare destinata a condizionare non poco gli assetti geopolitici del continente africano. Un fenomeno con effetti imprevedibili, nel bene e nel male, sulla stessa Unione Africana (Ua). Stiamo parlando di quell’organismo che dorrebbe esprimere le istanze del cosiddetto “panafricanesimo” nel villaggio globale. Sta di fatto che il discredito e la conseguente delegittimazione del leader libico Muammar Gheddafi, grande fautore degli Stati Uniti d’Africa, come anche la caduta del suo omologo egiziano Hosni Mubarak, avranno quasi sicuramente un impatto negativo sulle già scarse finanze della Ua. Annualmente, Libia ed Egitto coprono insieme il 30% del budget della Ua che, per il 2011, ammonta a 257 milioni di dollari e non sappiamo se in futuro questi due Paesi saranno in grado di mantenere l’impegno. Difficile naturalmente fare un paragone con l’Unione Europea che ha politiche ben più costose: basti pensare che l’Unione del Vecchio Continente costa nel suo complesso ai 27 stati membri una cifra da capogiro: 141,5 miliardi di euro. Sta di fatto che se l’organismo panafricano, con sede ad Addis Abeba, faceva già fatica a sbarcare il lunario, ora si preannunciano drastici tagli alle sue già scarse finanze. Ma la vera incognita è politica perché se da una parte è vero che diversi governi africani stanno in piedi grazie al sostegno offerto da Gheddafi – dal Ciad alla Liberia, per non parlare della Repubblica Centrafricana – da oltre 40 anni il leader libico rappresenta un fattore altamente destabilizzante a livello continentale. Basti pensare a certi personaggi defunti come il sanguinario dittatore ugandese Idi Amin Dada o al capo ribelle sierraleonese Foday Sankoh, fondatore del Fronte Unito Rivoluzionario (Ruf). La stessa rivolta che nel 2002 scoppiò nel nord della Costa d’Avorio contro il presidente Laurent Gbagbo venne pianificata e organizzata da militari libici. Gheddafi insomma è stato un abilissimo e imprevedibile “giocatore di poker”, col risultato che è riuscito a tener testa con grande disinvoltura anche alle grandi potenze, Stati Uniti in primis. E cosa dire del nuovo corso in Egitto? L’uscita di Mubarak, fedele alleato dell’Occidente, potrebbe avere un impatto negativo sia sul versante darfuriano come anche nella nascente Repubblica Sud Sudanese, per non parlare del perenne contenzioso tra quei Paesi bagnati dal lungo corso del Nilo, un bacino idrografico di enorme importanza anche per la strategica Regione dei Grandi Laghi, ricca di fonti energetiche e non solo. Insomma, Mubarak non è certamente stato in casa propria un campione di democrazia – la rivolta del pane la dice lunga – ma lascia un vuoto nella politica continentale che ha sempre più bisogno di leader in grado di contrastare o almeno indurre alla ragionevolezza dittatori ostinati come il presidente sudanese Omar Hassan el Beshir. Forse mai come oggi l’Unione Africana manifesta segni di grande debolezza, basti pensare allo strascico della crisi ivoriana che la vede in grande affanno. Stesso discorso per la Somalia che rimane il “buco nero” del Corno d’Africa. E cosa dire del Sudafrica di Jacob Zuma o della Nigeria alla ricerca di nuovi equilibri con le elezioni in programma ad aprile? Questi Paesi non stanno politicamente attraversando giorni felici. Una cosa è certa: lo scenario africano gioca a favore della Cina che prosegue senza scrupoli la colonizzazione di un continente in svendita al migliore offerente. Pechino appunto!
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