giovedì 1 giugno 2023
Una giovane insegnante di sostegno, animata dal “sacro fuoco” riflette amaramente sul suo risicato salario. Giusto stipendio e diritto alla casa sono una sfida di civiltà e di dignità
Amo il mio lavoro ma 500 euro... Senza equità non c'è vera comunità
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Caro direttore,

mi chiamo Monica Greco e faccio parte di quella categoria di giovani che in Italia al momento sono particolarmente bistrattati.

Mi sono laureata circa un anno fa in Filosofia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano: a 19 anni, come molti ragazzi che provengono dal Meridione, ho fatto le valigie e sono venuta a vivere a Milano. Ora ho 26 anni e si sta per concludere il mio primo anno di insegnamento in una scuola molto particolare, un IeFP (istituto di Istruzione e Formazione Professionale, ndr). Vorrei anch’io richiamare l’attenzione sulla solita, ridondante questione del lavoro per noi giovani.

Io guadagno, in media, 500 euro al mese – mi perdonerà se parlo così spudoratamente di soldi –, e lavoro circa 26 ore alla settimana. Mi rendo conto che per un altro tipo di lavoro 26 ore siano poche, ma per un insegnante sono davvero tante. Le 26 ore, infatti, sono “solo” quelle in classe. Bisogna poi considerare tutte le ore spese per predisporre gli schemi – sono una docente di sostegno –, sistemare i registri e i documenti burocratici. Per non parlare del carico emotivo speso per confrontarsi tutti i giorni con storie che parlano di una miseria quasi radicale: genitori che picchiano i figli, ragazzi abbandonati a loro stessi e via di questo passo.

Caro direttore, non mi lamento: è il lavoro che ho scelto, e per il quale provo – mi perdonerà l’uso di una parola “sacra”? – una forte vocazione. E qui arrivo al punto. Scrivo a lei perché dirige un giornale di ispirazione cattolica, e ritengo che la questione del salario basso sia importantissima anche da un punto di vista cristiano. Anche io sono cattolica e ritengo che lavorare così tanto, spendere tutta la passione di cui si è capaci, seguire la strada che il Signore ci indica debba essere in qualche modo facilitato. Vede, io non mi lamento di dover fare quella che si chiama “gavetta”. So che ci sono passati tutti e riconosco che quest’anno, per me, sia altamente formativo. Tuttavia, pensare di poter vivere in una città come Milano con 500 euro al mese è ai limiti del ridicolo. È per questo che, personalmente, mi indigno quando vedo che io e i miei coetanei siamo tacciati di “non voler lavorare” perché rifiutiamo lavori del genere.

Caro direttore, mi rivolgo a lei perché sento la necessità che un giornale come il vostro ci aiuti a giudicare l’esperienza che stiamo facendo senza scadere in fazioni: noi, loro e gli altri. Penso che un giudizio di ispirazione cattolica sia necessario, a questo punto, perché è tutto molto confuso e io, come molti miei coetanei, mi sento sfiduciata, senza un punto di riferimento. Le chiedo scusa nel caso in cui la mia lettera dovesse sembrarle inutile o polemica: non è mia intenzione farle perdere tempo. Spero che possa trovare un modo per rispondere alla mia domanda.

La ringrazio per aver letto le mie sconclusionate parole.

Monica Greco, una giovane insegnante


Cara Monica,

è molto bello il riferimento alla vocazione di cui parli nella lettera, a cui il direttore mi chiede di rispondere. È un colpo d’ali quanto mai necessario, dopo tante promesse viste svanire dalla vostra generazione e dopo tante vostre giuste recriminazioni.

Quando il lavoro è davvero una vocazione, quando si è spinti dal “sacro fuoco” vuol dire che ci si sta mettendo in gioco fino in fondo, senza calcoli, investendo energie emotive e talento. Non è così per tutti, purtroppo, anche nel mondo della scuola, ma è proprio per questo che è necessario tornare a dare il buon esempio, a partire da chi sta in cattedra.

Tanti insegnanti non hanno mai smesso di raccontare la bellezza del loro mestiere, anche in anni drammatici come questi, dove il loro servizio finisce a volte per essere svilito, messo sotto accusa, sottovalutato. Eppure, paradossalmente, le testimonianze più belle che abbiamo incontrato in questi anni, e che abbiamo riproposto nelle pagine del giornale, riguardano tutti coloro che “letteralmente” danno la vita per i loro alunni: si appassionano alle materie che spiegano, ma più ancora alle persone che hanno davanti. Si fanno percorsi complicati, spesso con ragazzi difficili. La domanda che si pone, mi pare, è questa: fino a che punto tutto questo può bastare quando poi si deve prendere in mano la propria vita e immaginare un futuro? Come riconoscere il sacro lavoro con la giusta retribuzione? I 500 euro cui fai riferimento come prof precaria a Milano sono una miseria e più ancora un’offesa a passione e professionalità. Non si va molto lontano se si pensa ai 1.300 euro con cui sono pagati i dottorandi delle università e altri talenti di questo Paese. Non è un caso che la protesta contro il caro-affitti nelle città sia partita soprattutto da loro: giusto stipendio e diritto alla casa sono una sfida di civiltà e di dignità. «Guai a voi che sfruttate la gente, che sfruttate il lavoro, che pagate in nero...», ha detto papa Francesco. Guai a chi vive di rendita, a chi sotterra i talenti, a chi non li fa fruttare. Poi c’è un discorso di equità, che riguarda il nostro stare dentro una comunità: non c’è governo in questo momento che non si stia ponendo il problema di rafforzare la busta paga dei lavoratori, anche in chiave di lotta alle disuguaglianze sociali. La forbice oggi molto ampia che esiste ad esempio tra un manager e un dipendente, va ridotta in modo sostanziale, in direzione di un maggiore equilibrio. Si potrebbe partire da qui, per dare un segnale a tanti giovani che pensano e vogliono costruire un futuro diverso.

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