sabato 25 luglio 2009
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Chiosando la celeberrima frase di Neil Armstrong pronunciata mettendo piede sulla Luna («un piccolo passo per un uomo, ma un grande balzo per l’umanità») si può dire che ieri si è consumato per la nostra università un primo piccolo passo che però ha in sé le potenzialità per generare un grande balzo.Niente è sicuro e niente è scontato – le tante delusioni del passato impongono cautela –, però quel minuscolo 7% del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) – in tutto 525 milioni di euro – ripartito tra le università sulla base di criteri oggettivi di merito, con gli Atenei migliori premiati – in cima l’Università di Trento e i Politecnici di Torino e Milano –, con la penalizzazione di quelli risultati meno buoni, e con tre – Trieste, Firenze e Siena – la cui valutazione è sospesa in attesa dei piani finanziari di risanamento dei bilanci che attualmente risultano in rosso, può costituire un segnale importante. Il valore è forse più psicologico che sostanziale, ma l’indicazione che se ne trae è che per un certo modello di università autoreferenziale, con docenti sazi della cattedra conseguita grazie a concorsi compiacenti, incurante dell’efficacia delle proposte didattiche e dell’esito professionale dei propri laureati, comincia a oscurarsi l’orizzonte. La promessa del ministro Gelmini di aumentare nei prossimi anni la quota assegnata per merito fino al 25-30% indica un’intenzione politica altrettanto apprezzabile. Certo, i problemi della nostra università sono con questo ben lungi dall’essere risolti: quello dei finanziamenti incombe, con le riduzioni previste per il Fondo di finanziamento duramente contestate dall’opposizione parlamentare. Gli atenei sono chiamati a compiere dei sacrifici, ma hanno, ad esempio, ridottissime possibilità di agire sulla voce più sostanziosa delle loro uscite, quella relativa al personale, che segue rigidi contratti nazionali. Risalta, inoltre, anche dalla classifica da cui abbiamo preso le mosse (pubblicata a pagina 4), la conferma di un divario serio tra università del Nord e del Centro-Sud (pur con significative eccezioni): una situazione che non può essere accettata come supina certificazione dell’esistente, ma che sollecita azioni vigorose di recupero. È un intero sistema che va riguadagnato a un circuito virtuoso, di pari passo con la modernizzazione istituzionale ed economica del Paese. Non è pensabile che l’Italia riesca ad emergere dalla crisi economica senza disporre delle competenze qualificate, coltivate da università che siano fucine di ricerca, con docenti competenti, appassionati, valutati e retribuiti in base alla qualità del lavoro svolto: l’ha chiesto Obama per gli Usa, dove la meritocrazia non ha bisogno di avvocati, tanto più serve a noi, storicamente refrattari a quella cultura. Come riconosciuto dallo stesso ministro, è altresì indispensabile investire soldi pubblici per «sostenere i sacrifici che fanno le famiglie per mantenere i figli all’università. Servono più residenze, più campus, prestiti d’onore e borse di studio». Ed è la crisi a imporre che questi aspetti siano affrontati tempestivamente e simultaneamente, perché altrimenti le difficoltà rischiano di scaricarsi sui giovani economicamente più deboli, impedendo loro di esercitare quella libertà di scelta che, se «capaci e meritevoli» hanno diritto di vedersi riconosciuta. Benvenuta quindi la decisione adottata ieri, ma si presti attenzione anche alle ragioni – quando sostenute da buoni argomenti – degli atenei che oggi proveranno a giustificare le performance non soddisfacenti e si operi perché non si cristallizzi una frattura educativa nel Paese.
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