sabato 3 giugno 2017
Caro direttore, desidero commentare alcune affermazioni contenute nell’articolo del 19 maggio a firma di Ferdinando Camon sul numero chiuso nelle università
«Università il numero chiuso serve». Ma non nelle facoltà umanistiche
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Caro direttore,
desidero commentare alcune affermazioni contenute nell’articolo del 19 maggio a firma di Ferdinando Camon sul numero chiuso nelle università. L’argomento è per me “caldo”, perché insegno una materia scientifica in un grande Ateneo del Nord Italia e sono stato tra i responsabili del test di ammissione alla mia Facoltà per più di dieci anni. Critico innanzitutto l’affermazione che «introdurre il numero chiuso in una Facoltà porterà alcuni studenti tagliati per quel corso di studi a imboccarne un altro». Per legge, esclusi i corsi di studio per i quali i posti disponibili sono decisi dal ministero – come ad esempio Medicina –, il numero chiuso può essere deliberato solo con motivazioni di sostenibilità – quindi solo a causa di insufficienti risorse di docenza, aule o laboratori – e tutti i corsi di laurea hanno l’interesse a limitare l’accesso il meno possibile. È pertanto assai improbabile che uno studente tagliato per un certo corso di studi ne venga escluso: chi studia bene negli anni di scuola precedenti, non sbaglia grossolanamente il test di ammissione per il corso di studi che gli sta a cuore. Peraltro in molti corsi di studio le sessioni di prove d’ammissione sono più d’una. Non concordo inoltre sull’affermazione che sostiene, per lo meno per le Facoltà umanistiche, l’impossibilità di misurare l’attitudine a un certo corso di studi mediante quiz. Per quanto riguarda la facoltà scientifica di cui ho esperienza, posso assicurare che i nostri test sono stati ampiamente validati dall’analisi della carriera degli studenti: la correlazione tra l’esito della prova di ammissione e quello degli esami del primo anno è fortissima, ad esempio molto più alta del voto di maturità. Non ho esperienza diretta delle Facoltà umanistiche, ma non ho difficoltà a credere che anche per queste i test utilizzati (obbligatori per legge anche senza il numero chiuso e quindi disponibili da anni) possano essere, o siano già stati, validati. Certamente un ulteriore elemento di giudizio su di un aspirante studente potrebbe essere costituito da una lettera motivazionale, ma in assenza di una chiara normativa che la preveda, è facile immaginare cosa deciderebbe un Tar al primo ricorso. Infine, sono convinto, e lo sperimento anche aiutando miei studenti in difficoltà, che tutti siano in qualche misura educabili a tutto. Ma a quale prezzo? Con quali risorse? In quali tempi? L’Università non si occupa di alfabetizzazione, ma di altro, e la carenza di risorse che sperimenta non permette certo un allargamento dei suoi compiti. In sintesi, ritengo che un ragionevole numero chiuso semplicemente impedirebbe agli studenti peggiori, che abbandonano dopo poche settimane o dilatano molto i tempi di laurea, di affollare le aule e i laboratori oltre la loro capienza, rendendo più difficili la frequenza per i loro colleghi e il lavoro per i docenti.

Giovanni Colombo

Caro professor Colombo, grazie della sua bellissima lettera che il direttore mi ha fatto avere, proponendomi di dialogare con lei. Non ho nulla da dire sul lavoro di selezionatore per le Facoltà scientifiche, e non dubito che dia risultati eccellenti. Dubito che la selezione preventiva possa funzionare nelle Facoltà umanistiche. Qui si tratta di valutare se lo studente è tagliato per la comunicazione linguistica, sa comprenderla e sa insegnarla: i quiz non sono adatti per questo. Si pensava, in passato, di fare con i quiz tutto l’esame di maturità: un disastro. I quiz danno una valutazione nozionistica del candidato. Ha visto “L’attimo fuggente”? I quiz andavano bene per valutare quegli studenti prima che Robin Williams strappasse dal loro manuale le pagine nozionistiche che ingabbiavano la comprensione della poesia. Robin arriva e insegna che la poesia si sente, non si calcola. Però so bene che le Facoltà devono calibrare il numero degli iscritti sulle proprie capacità di accoglienza. Mi scusi: il mio traduttore russo è un docente all’Università di Mosca, e mi raccontava che la sua Facoltà accoglieva chi s’iscriveva, ospitandolo, ma dopo un anno se quello non aveva superato i dovuti esami gli diceva: «Tu te ne vai e lasci il posto a un altro». Questo lo capisco: uno paga le proprie scelte errate, non le scelte errate dei selezionatori. Come dicevo, a me i selezionatori avevano raccomandato “indirizzo tecnico”. Come spararmi in testa.

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