venerdì 2 ottobre 2009
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C’è qualcosa di stridente nelle notizie che aggiornano continuamente il nu­mero di morti per il sisma che l’altro ieri ha colpito l’isola di Sumatra. È il modo ovattato in cui giungono. È l’impercettibile violenza del gap comunicazionale che le distanziano dalla battente mediatizzazione dei 300 mor­ti dell’Aquila, con il successivo G8 e i grandi del mondo in passerella tra le macerie, fino ai riflettori puntati, nelle ultime settimane, sulla consegna delle prime case. Tutte fasi im­portanti, comprensibilmente vicine al cuore di noi italiani, e tanto più di noi abruzzesi. Però la sensazione di un’inavvertibile violen­za aleggia, in queste ore in cui Sumatra tiene banco in tutti i notiziari. E non è nuova. È la stessa che si era avvertita nei giorni scorsi ri­spetto al tifone e allo tsunami, con un minor di numero di vittime, nel Sudest asiatico e nelle Samoa Americane. È la stessa del terre­moto nel Sichuan cinese, a maggio del 2008, prima delle Olimpiadi di Pechino, il cui con­teggio delle vittime non fu neanche comple­tato dai media – si scrisse 7.000 morti, 8.000, 10.000 o molti di più – finendo ingoiato e fa­gocitato da altri osceni interrogativi: le Olim­piadi si sarebbero svolte ugualmente? Ne a­vrebbero risentito le fastose cerimonie di a­pertura, con cui il drago celeste ridestatosi intendeva stupire il mondo? E allora sta proprio a noi abruzzesi – che del terremoto abbiamo fatto recente esperienza con questi trecento morti, e più antica espe­rienza, con decine di migliaia di vittime, nel 1915, 1706, 1703, 1456, 1349, fino a risalire a­gli anni senza data dei secoli bui dell’alto­medioevo e del tardo impero – alzare la voce per una sottolineatura di dissenso. Sì, pro­prio a noi, 'beneficiati', sotto un certo profi­lo, da tanta mediatizzazione, dopo la trage­dia. E guai se non dissentissimo. Perché vorreb­be dire che anche a noi il terremoto di Su­matra e le altre sciagure sembrano eventi di un altro pianeta, terremoti marziani, di una terra rossastra e disabitata, su cui atterrano le astronavi nei film di fantascienza: terre­moti da fiction. Solo che Sumatra non è una fiction. Le isole e le coste stravolte dagli ura­gani non sono una fiction. Le Samoa non so­no una fiction. Il Sichuan non è una fiction. E neanche lo tsunami del 2004, coi suoi 230.000 morti. Il dolore, prima ancora, non è una fiction. Questo va detto alzandosi con l’indice dritto, a reclamare, fuori dal coro. L’impero della mediatizzazione, con l’ovat­tata violenza dei suoi riti & miti, persegue in­fatti un trend fisso: espropriare l’uomo della facoltà di giudizio; sottrargli tempo per la ri­flessione; inibirgli la meditazione, per usare una magnifica parola – meditazione, appun­to – resa oggi desueta quando non ridicola, o confinata in limacciose pratiche new age. La mediatizzazione è nemica della medita­zione. L’ha in odio. La teme e l’allontana, av­verte che in essa c’è il germe dissolutivo del suo distorto assioma di fondo, quello per cui il dato non va meditato, sistematizzato, 'co­scientizzato', bensì solo aggiornato. Ecco perché il terremoto di Sumatra ci ap­partiene quanto quello dell’Abruzzo. Al do­lore di chi è più povero appartiene anche il no­stro dolore. L’Italia è parte di un’antica civiltà nel cuore del mondo occidentale, o nei suoi dintorni, al­meno. A questa civiltà appartenne, nel 1500, un pensatore che si chiamava Michel de Mon­taigne, che sulle travi della torre dove medi­tava fece incidere un aforisma di Terenzio, di 1700 anni più antico di lui: homo sum, hu­mani nil a me alienum puto, sono un uomo e nulla di ciò che sia umano giudico indiffe­rente a me. Duecento anni dopo Terenzio, Paolo di Tarso, gridando appassionatamen­te le parole di un altro Maestro, scrisse: non c’è più né giudeo né greco, né libero né schia­vo, né uomo né donna, perché tutti siete u­no. Oggi queste parole ci sono usuali. Provia­mo a calarle nella violenza dei rapporti so­ciali e della cultura del I secolo dopo Cristo, per capire cosa hanno portato nella storia dell’uomo. Sono i maestri del pensiero a indicarci oggi Sumatra. Non c’è L’Aquila e non c’è Sumatra. Le sillabe della remota lingua indonesiana salgono – con gli stessi toni dolenti della per­dita e del lutto, là dove ogni perdita è ritrova­mento e ogni lacrima è asciugata – dai nostri monti d’Abruzzo.
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