giovedì 5 marzo 2009
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Rivolgendosi ai ragazzi nel messaggio per la prossima 24ª Giornata mondiale della gioventù Benedetto XVI ha parlato di un giovane, «uno come voi», sui venti o venticinque anni. Uno che duemila anni fa se ne andava a cavallo verso Damasco, fiero della Legge di Mosè e deciso ad affermarla con la forza contro ai suoi nemici. Quel tal ragazzo dunque, ha rievocato il Papa, improvvisamente abbagliato da una gran luce cadde da cavallo, mentre una voce gli chiedeva: Saulo, perché mi perseguiti? Ben nota è poi la storia di colui che scrisse: «Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente», e aprì la strada a generazioni di cristiani.Ma colpisce nel messaggio papale quella annotazione, «era un giovane come voi». Paolo, uno come voi, nel fiore dell’età, e forte, e certo dei suoi disegni; Paolo disarcionato a terra sulla sabbia della strada per Damasco, costretto a domandare in ginocchio a quel Dio ignoto: chi sei? È paolino il percorso che porterà verso la Gmg di Madrid del 2011: «Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede», è il tema. E Paolo, dice non a caso il Papa, era un giorno come uno di voi. Uno che aveva tutto, all’apparenza, e a cui però mancava l’essenziale: la speranza, la grande speranza dei cristiani. Che non è una speranza contingente, né attesa di fortunati destini, né il disporre le cose in modo che, ragionevolmente, ce la caviamo. La grande speranza, dice Benedetto, «può essere solo Dio». Un Dio che conosce e ama ciascun uomo, e che promette a ciascuno «il centuplo quaggiù», e la vita per sempre. La speranza dunque è senso che colmi ogni giornata, per quanto sfortunata o dolorosa o banale. Martedì, sulla prima pagina di Repubblica Pietro Citati sosteneva che l’evangelista Giovanni «non provava il minimo interesse per la vita quotidiana», per l’«insignificante» nascere e morire degli uomini, ma solo tendeva alla vita eterna. È vero esattamente il contrario: già "questa" vita dalla promessa di Cristo è colmata, così che l’eterno con Cristo si è fatto quotidiano. Ed è questo che il Papa continua a dirci: «La fede – ha scritto nella Spe salvi – non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti (...) Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro "non-ancora". Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future». È la speranza, dice il Papa, la questione fondamentale dell’oggi, quando «l’oblio di Dio» si allarga in «evidente smarrimento, con risvolti di solitudine e violenza». E qui parla dei giovani – e «purtroppo», dice «non sono pochi» – «feriti della vita», esposti alla deriva di un vuoto familiare o di un’educazione distratta. Come, si chiede, annunciare la speranza anche a loro? (Perché, dice il Papa, «il desiderio di amore vero e di felicità non si spegne», neanche in quelli che paiono i peggiori). Come annunciare? La speranza, ripete Benedetto XVI con l’insistenza con cui si dice qualcosa di troppo a lungo dimenticato, «non è un ideale o un sentimento, ma una persona viva: Gesù Cristo». Non è un "valore" o un’astratta nobile morale: è un Dio vivo, è un Dio accanto, cui l’uomo sta a cuore. Un Dio che dice ai giovani seguaci del nulla, ai violenti, a chi sembra perduto e gli è dunque ancora più caro: la speranza, sono io. Come lo disse un giorno a un giovane ebreo persecutore di cristiani, uno che si sentiva giusto e "a posto". E per farsi sentire dovette buttarlo giù dal suo orgoglioso cavallo: perché quello, a vent’anni, potente, pago di sé, non ne voleva sapere di ascoltare.
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