martedì 3 febbraio 2009
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Non hanno voluto ascoltare la voce delle suore che, ripetuta­mente, li hanno supplicati di lasciar loro quella che dopo tanti anni di cu­re amorevoli, quotidiane, esemplari sentivano come figlia. Figlia, certo, perché si è figli di un amore, non di una sentenza, nemmeno se confer­mata dai bolli di cento tribunali e dai ragionamenti astratti di toghe che del diritto hanno fatto un teorema effe­rato. Sancendo la prima condanna a morte dell’Italia repubblicana. Che Eluana abbia bisogno di essere figlia di un legame vitale, in queste o­re nelle quali il suo destino si è ri­messo drammaticamente in movi­mento, appare con un’evidenza dif­ficile da respingere. Certo, un padre c’è: ma è quello che la sottrae a ma­ni generose e care per consegnarla – pare – a un drappello di volontari del­la morte, comandati da un’ideologia disumana e da forze che nemmeno hanno il coraggio di dichiararsi. Chi avrebbe il cuore di sospenderle cibo e acqua, anche solo per rispettare u­na volontà mai davvero verificata co­me giustizia vera comanda? In questa cornice fattasi nuovamen­te così cupa non si capisce tanta o­stinazione nel voler portare a termi­ne il disegno di soppressione di una vita misteriosa ma presente. In nome di questa vita, che la scienza ci mo­stra ogni giorno di più come terra an­cora tutta incognita, anche noi vo­gliamo essere ostinati, se occorre contro ogni evidenza: ci ostiniamo a pensare che Eluana venga trasferita altrove ma per essere curata anche là, per continuare a vivere. Ce lo di­ce l’istinto profondo di tutta la no­stra civiltà, che non può ammette­re un buco nero di questa enormità. Ce lo ripete la consapevolezza che molti tribunali – prima di quelli che hanno allestito sciagurati castelli di carte sballate e non fotografanti la reale condizione di Eluana per giu­stificare l’orrore – avevano rigetta­to la richiesta di staccare il sondino. Ce lo rammenta la voce del Papa, che ancora domenica ha negato che l’eutanasia (perché di questo si tratterebbe) sia una soluzione alla sofferenza, per quanto intollerabi­le essa sia. Alla cartella clinica – colpevolmente ferma a conoscenze scientifiche vec­chie di anni – hanno allegato le car­te dei tribunali che hanno aperto la breccia nella nostra Costituzione (dove si tutela il diritto a vivere e a es­sere curati, e non certo il suo contra­rio) in un crescendo di autodimo­strazioni buone per legittimare ciò che non si voleva chiamare per no­me. Si sono dati ragione tra di loro: dalla Cassazione alla Corte d’Appel­lo di Milano, al Tar della Lombardia, con la pietra tombale a ogni voce contraria posata sabato dal presi­dente della Corte milanese Giusep­pe Grechi, sprezzante nel liquidare le obiezioni e non a caso mostrato a esempio da papà Englaro: «Di più non potevo attendermi». Quella par­te della magistratura che ha aperto la porta al consumarsi di un’ingiustizia verso una disabile grave incapace di esprimere oggi la sua volontà porta una responsabilità immane. Grechi e le altre toghe che con tanta arro­ganza hanno piegato i fondamenti del diritto per creare il mostro giuri­dico dell’onnipotente volontà indi­viduale forse non hanno realizzato quale architrave si rischi di svellere con il loro consenso. Forse contano sull’assuefazione. Ma si sbagliano. L’Italia non starà alla fi­nestra, non ha questa indifferenza nella propria identità. Rifiuterà un’a­gonia insopportabile. Sa commuo­versi, capire, battersi. Lo farà anche stavolta. E noi con lei. Perché Elua­na è parte di noi. Sì, Eluana oggi è fi­glia nostra.
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