Tra Roma e Bruxelles un rapporto a corrente alternata
sabato 16 dicembre 2023

Un gioco perverso di emozioni alternate. L’Europa, creatura bella e imperfetta, ci ha abituati a questo. E così l’esultanza per l’ok ai negoziati sull’adesione alla Ue dell’Ucraina invasa nel volgere di poche ore è stata spazzata via dalla delusione per il nulla di fatto sul bilancio dell’Unione (inclusi i nuovi 50 miliardi da garantire agli ucraini) imposto dal veto della sola Ungheria, da abbinare al non meno impattante fallimento nel definire una linea comune sul conflitto a Gaza. Una doccia gelata che soprattutto riporta in primo piano il limite cronico della costruzione europea, gigante dai piedi d’argilla: grande testimonianza di convivenza pacifica fra popoli una volta ferocemente divisi ma che, senza una adeguata impalcatura istituzionale, rischia di scivolare verso una deriva di graduale irrilevanza. Lo si è ampiamente detto in questi anni e in questi mesi, a riguardo della mancanza di un’azione forte della Ue nei conflitti mondiali (dove oggi a pesare di più è persino la singola Turchia), in materia di politiche industriali e anche davanti alle conseguenze socio-economiche sopportate dai popoli europei per i grandi mutamenti geo-politici in atto.

Troppi vincoli, troppi cavilli, troppi condizionamenti fanno dell’Europa ancora oggi, a 66 anni dai Trattati di Roma che diedero vita all’allora Cee, un purosangue costretto a trotterellare su un campo di dressage. Di quell’ideale di un continente unito che avrebbe cambiato il mondo resta un’impronta troppo vaga. Il mondo si è scomposto, le strutture multinazionali hanno perso peso e, con esse, anche l’Unione. Questi due giorni del Consiglio Europeo ne sono stati una conferma. E impongono, una volta di più, una riflessione urgente che muove dai progetti d’allargamento: una Ue sempre più ampia è un bel disegno, ma non deve trasformarsi in un’utopia irreale. Sulla rivisitazione del bilancio una soluzione sarà pure trovata a gennaio (magari cercando sui mercati finanziari tutti i fondi per Kiev, come chiede il magiaro Orbán per non pesare sui conti degli Stati), però l’ennesimo campanello d’allarme non può suonare ancora invano per i leader, obbligati a “muoversi”. Ogni processo politico per riuscire deve partire da elementi di vicinanza umana e culturale prima ancora che da una mera partita monetaria di fondi fra dare e avere o dall’affastellare, una sull’altra, esigenze e interessi di un numero sempre maggiore di Nazioni.

La storia ha mostrato che già il primo allargamento a Est nei primi anni Duemila, con la commissione Prodi, era necessario (pensiamo ai rischi che correrebbe oggi, dopo l’Ucraina, una Polonia fuori dall’Ue, ad esempio), ma era un processo che imponeva un’immediata correzione dei meccanismi di governo che invece fu trascurata. Correzione che deve andare nel segno anche di una maggior semplicità, al contrario di interventi che si prospettano – vedi la riforma del Patto di stabilità che vincola i conti degli Stati – basati invece su interpretazioni criptiche e difficili da comprendere per i cittadini, prima ancora che per i governanti. In questi anni si è molto parlato di possibili soluzioni: una Ue “a due velocità”, con un nucleo ristretto di Pae-si basati su una forte condivisione di visioni e politiche (al di là dei vantaggi nazionali) e altri sottoposti a obblighi minori; da più parti si vagheggia l’idea di far eleggere il presidente della Commissione, come segnale “forte” per i cittadini europei; c’è anche stata nel maggio scorso un’iniziativa di 9 Paesi (fra cui l’Italia) finalizzata a superare l’obbligo dell’unanimità a partire da una serie di temi. Qui sta la paralisi dell’Europa.

Nell’economia l’Ue ha fatto passi in avanti grandiosi, dall’euro al Recovery plan in risposta al Covid; tuttavia lo stesso euro non fu adottato all’unanimità, tant’è che un vecchio “socio” dell’Unione come la Danimarca ne è ancora fuori. E il primo fronte su cui serve una linea comune – lo sappiamo tutti – è la politica estera: perché è lì che si prendono le decisioni pesanti, che poi hanno ricadute in tutti i campi. Una grande forza economica senza politica estera condivisa, espressione di una maggior unità politica dall’Atlantico fino a Kiev in futuro, diventa una “potenza nulla senza controllo”, per riprendere un vecchio slogan pubblicitario. Più che vertici straordinari, come quello che ora si prospetta a gennaio, ecco che fra i leader europei servirebbe piuttosto una “pausa straordinaria”, un “pit stop” per elaborare nuove idee e meccanismi capaci di superare il rischio impasse che a Bruxelles, invece, continua a nascondersi oggi dietro troppi angoli.

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