Nel gesto di cambiare il calendario c’è in questo esordio a lungo sospirato dell’anno nuovo qualcosa di ancor più simbolico del consueto: non solo il lasciarsi alle spalle mesi tribolati ma anche il desiderio – fortissimo – di aprirci al nuovo, consapevoli tuttavia che occorrerà altro tempo per scorgere veri segni di cambiamento. Sentiamo però intanto urgere alcune domande essenziali: cosa cerchiamo nel 2021? Di cosa si nutre la nostra fiducia che le cose andranno meglio? E prima di liberarcene del tutto, cosa ci ha insegnato il 2020? Servono punti fermi attorno ai quali costruire il «tempo nuovo» che comunque verrà. Abbiamo chiesto ad alcune firme care ai lettori di Avvenire di aiutarci a trovare parole portanti, come architravi affidabili. Eccole.
CURA. Sentirci bisognosi: così torna l'attenzione
Se facessimo una ricerca in internet su quante volte la parola "cura" è apparsa nel 2020 tra le notizie, nei discorsi, negli auspici, sui social, scopriremmo banalmente che la sua frequenza è molto maggiore che negli anni passati. Non è sono la frequenza che è aumentata, ma anche la presa di coscienza collettiva della sua importanza. Una parola che viene riscoperta come dimensione essenziale della vita in comune. Cosa è potuto accadere perché ci si rendesse conto della sua importanza? Un flagello collettivo ci ha fatti percepire tutti come bisognosi di cura. L’isolamento forzato ci ha fatto sentire la mancanza di quella cura che si esprime con gesti semplici, come un abbraccio o una stretta di mano. Quando nel Vangelo di Luca, nella parabola del buon Samaritano Gesù domanda al dottore della legge "Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo" dell’uomo mezzo morto caduto in mano ai briganti, cioè chi si è preso cura di lui, ci sta dicendo che se devo riconoscere il prossimo in uno dei tre vuol dire che la persona mezza morta sono io.
Il primo passo per riconoscere l’importanza della cura è sentirmi bisognoso di cura. E se sento questo bisogno su di me saprò passare, vedere chi è in necessità, e fermarmi. Chiaramente dal comprendere l’importanza della cura a diventare società che valorizza il prendersi cura c’è una trasformazione culturale che passa attraverso l’educazione e l’esperienza concreta.
Nell’enciclica Fratelli tutti leggiamo: «Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate» (n.64). Siamo intimamente convinti che prenderci cura di altre persone – non solo quelle legate alla mia famiglia – sia qualcosa che ci rende degni di abitare questa terra? Quando parliamo di cura qui intendiamo l’attenzione, l’ascolto, il prendersi a cuore anima e corpo di chi ne ha bisogno in un dato momento: aiutare una persona anziana non autosufficiente a mangiare o a vestirsi, leggere delle favole a un bambino, pulire degli ambienti abitati da chi non riesce a farlo, rispettare la natura e il creato, e così via.
La cura è di solito considerata come una distrazione da compiti più importanti, quindi appaltata, in genere alle donne o a persone che lo fanno al posto di altri e che devono vivere – spesso miseramente – di questo. Abbiamo bisogno di imparare collettivamente l’alfabeto della cura. Parafrasando san Giovanni Bosco, il quale sosteneva che in ogni giovane c’è un punto accessibile al bene e che è compito dell’educatore trovare quella corda sensibile e farla vibrare, potremmo dire che in ogni giovane, in ogni persona, c’è un’attitudine al prendersi cura. Compito degli educatori è far fiorire questa attitudine. I due verbi biblici che ci aiutano a comprendere il prendersi cura sono "coltivare" e "custodire", la terra e i fratelli. Dio affida la terra all’uomo per custodirla e coltivarla, quindi trasformarla. «Sono forse io il custode di mio fratello?», si chiede Caino. «Sì, certamente», risponde papa Francesco nel Messaggio per la Giornata mondiale della Pace 2021.
Attenzione, partecipazione, vicinanza: queste le modalità della cura da apprendere, e per renderle concrete lasciamo la parola a un brano de I miserabili di Victor Hugo: «"Signor curato - disse l’uomo -, siete buono. Non mi disprezzate: mi accogliete in casa vostra; accendete per me le vostre candele. Eppure non vi ho nascosto da dove venivo e che sono un miserabile". Il vescovo gli si sedette vicino, gli toccò con dolcezza la mano. "Non avevate bisogno di dirmi chi eravate; questa non è la mia casa, è la casa di Gesù Cristo... Voi soffrite; avete fame e sete, siate il benvenuto. E non ringraziatemi, non ditemi che vi ospito in casa mia. Qui nessuno è in casa propria, tranne chi ha bisogno di un asilo... Qui, tutto è vostro. Che bisogno ho di sapere il vostro nome? D’altronde, prima che me lo diceste, ne avevate uno che conoscevo". L’uomo spalancò gli occhi stupìto. "Davvero? Sapevate come mi chiamo?". "Sì – rispose il vescovo –, vi chiamate mio fratello"».