martedì 4 febbraio 2020
Il possibile contenimento delle emissioni nelle strategie contro il riscaldamento climatico
Meno allevamenti, più foreste per assorbire la CO2 in eccesso
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In caso di perdita d’acqua ci sono due modi per evitare l’allagamento: tamponare la falla o posizionare dei sacchetti di sabbia per assorbire l’acqua in uscita. Lo stesso vale per i cambiamenti climatici. L’aumento della temperatura terrestre può essere evitata riducendo le emissioni di anidride carbonica o potenziando i meccanismi per neutralizzarla. Così almeno in teoria. Nella pratica è molto più semplice intervenire sulle emissioni ed è su questa opzione che gli scienziati si sono concentrati dicendoci che se vogliamo impedire alla temperatura terrestre di salire oltre il grado e mezzo centigrado, dobbiamo dimezzare le emissioni in eccesso entro il 2030 e azzerarle per il 2050. Ce lo vanno dicendo dal 2011, ma fino ad oggi i risultati non sono stati incoraggianti.

Nell’ultimo decennio le emissioni di gas serra dovute alle attività umane sono cresciute ogni anno dell’1,5% per raggiungere i 55,3 miliardi di tonnellate nel 2018. Naturalmente la parte del leone la fa l’anidride carbonica emessa dai combustibili fossili, quota che nel 2018 ha raggiunto i 37,5 miliardi di tonnellate. Una porzione anch’essa aumentata costantemente dell’1,5% dal 2009 ad oggi, registrando un rallentamento della crescita solo nel 2015 per un minor uso di carbone sia negli Stati Uniti che in Cina. Ma nel 2018 si è registrato un aumento record del 2%, segno di una fame crescente di energia a livello mondiale. Ed è di fronte a risultati così deludenti che si è attivato un certo fermento anche attorno all’altra strategia di abbattimento, quella della rimozione a valle, in attesa che il mondo si convinca dell’ineluttabilità di dover ridurre a monte.

Le idee naturalmente non mancano, alcune anche piuttosto ardite. Classificate tutte sotto la sigla Net, Negative Emission Technologies, tecnologie a emissione negativa, c’è chi pensa di intervenire sulle nuvole per creare piogge alcaline capaci di reagire con l’anidride carbonica; chi suggerisce di irrorare il cielo con microparticelle riflettenti capaci di respingere la radiazione solare e raffreddare il pianeta. Altri, invece, si stanno concentrando sulla cattura diretta della CO2 attraverso giganteschi aspirapolvere per filtrare l’aria e sequestrare l’anidride carbonica, addirittura alla fonte come i camini delle centrali elettriche dove è più concentrata. Soluzioni al momento valide sul piano sperimentale, ma inapplicabili su grande scala perché troppo costose e con molti nodi irrisolti come quello di dove stoccare il gas catturato. Del resto la natura è già organizzata per assorbire anidride carbo- nica e piuttosto che inerpicarsi per sentieri avventurosi, converrebbe consolidare i processi già presenti in natura. Uno di questi è la fotosintesi clorofilliana, il meccanismo attraverso il quale le piante catturano CO2 per il proprio accrescimento.


Si potrebbero piantare mille miliardi di alberi nelle terre cosiddette marginali per «immagazzinare» l’anidride carbonica
emessa con la combustione

Le piante sono assorbenti naturali di anidride carbonica e se per vari decenni abbiamo potuto emettere anidride carbonica senza subire contraccolpi sul piano climatico è stato proprio grazie a loro. Si calcola che le foreste ci abbiano liberato di circa il 25% di tutta l’anidride carbonica emessa negli ultimi 40 anni dalle attività umane, rallentando significativamente il processo di surriscaldamento terrestre. Dunque un’altra strada che dovremmo battere per fermare i cambiamenti climatici è il potenziamento delle foreste cominciando a mettere uno stop alla loro distruzione. Secondo il 'National Geographic' le foreste coprono il 30% della terra fertile, ma stanno scomparendo a un ritmo allarmante. Fra il 1996 e il 2016 il mondo ha perso 1,3 milioni di chilometri quadrati, un’area più grande dell’intero Sudafrica. Negli ultimi 50 anni circa il 17% della foresta amazzonica è stata distrutta, con un’accelerazione preoccupante in tempi recenti. Metà della deforestazione è dovuta all’espansione delle attività agricole, a nuovi allevamenti, all’estrazione di minerali, alla trivellazione di pozzi petroliferi. L’altra metà è dovuta al taglio di legname, agli incendi selvaggi, in piccola parte anche all’urbanizzazione. In Malesia e Indonesia le foreste sono distrutte per fare posto alle piantagioni di olio di palma, un ingrediente che si ritrova in una molteplicità di prodotti di uso quotidiano, dagli shampoo alle tartine. In Amazzonia i colpevoli principali sono l’allevamento e le monoculture, in particolare la soia.

Ed ecco il ritorno in scena della questione alimentare a dimostrazione di quanto sia stretta la connessione fra cibo, gestione delle terre e cambiamenti climatici. La terra è generosa, ma al tempo stesso di dimensioni limitate, per cui dobbiamo imparare a gestirla sapientemente in modo da mantenerla integra e saperla ripartire equamente fra le diverse esigenze: non solo il bisogno alimentare, ma anche di biodiversità, viabilità, alloggio, estetica e mantenimento degli equilibri naturali. In questa prospettiva, è stato detto più volte, non c’è spazio per un consumo sconsiderato di carne né di derivati animali. Ma continuiamo a fare orecchi da mercante: dal 1990 a oggi, anno in cui uscì il primo rapporto sui cambiamenti climatici, la produzione mondiale di carne, latte e uova è quasi raddoppiata passando da 758 a 1.247 milioni di tonnellate, senza che la fame sia stata debellata. Nel 1990 gli affamati erano 786 milioni, oggi sono 820 milioni.


Sono già attivi in 40 Paesi programmi di riforestazione come la Bonn Challenge che ha l’obiettivo di riutilizzare a bosco
o come campi arabili 500 milioni di ettari entro il 2030

Considerato che l’allevamento animale contribuisce al 14% di tutti i gas serra prodotti a livello mondiale, avremmo tutto l’interesse a ridurre il consumo di carne per fare posto alle foreste. Secondo il World Resource Institute, fra pascoli e coltivazione di granaglie, l’allevamento di bestiame impegna circa 3,5 miliardi ettari di terra (28% delle terre fertili) e se ne riforestassimo anche solo un miliardo, daremmo un contributo importante alla lotta contro i cambiamenti climatici. Purtroppo al momento non si intravedono segnali di una tale volontà per cui alcuni ricercatori hanno deciso di ricercare in altra direzione. Dopo aver scandagliato l’intero globo hanno individuato quasi un miliardo di ettari di terre marginali, attualmente non utilizzate per nessuno scopo, che potrebbero essere riconvertiti a foresta. Più del 50% si trovano in paesi leader come Russia, Stati Uniti, Canada, Australia, Brasile, Cina, a sottolineare quanto siano determinanti le loro decisioni. Tom Crowther, professore all’ETH Università di Zurigo che ha partecipato alla ricerca, ci tiene a sottolineare che se si procedesse subito alla riforestazione delle terre marginali, da qui ai prossimi 50-100 anni si otterrebbe il sequestro di 200 miliardi di tonnellate di anidride carbonica con un costo minimo: appena 30 centesimi di dollaro ad albero. Il che significa che si potrebbero ripiantare 1.000 miliardi di alberi con una spesa di appena 300 miliardi di dollari, una somma che potrebbe essere facilmente ottenuta lanciando una campagna di raccolta fondi fra il grande pubblico e fra i ricchi filantropici del mondo.


Mille miliardi di ettari sono già «liberi e disponibili» in Russia, Stati Uniti, Canada, Australia, Brasile e Cina

Fortunatamente iniziative di riforestazione esistono già. Una di queste è la Bonn Challenge, un progetto promosso nel 2011 dal governo tedesco in collaborazione con la Iucn (International Union for Conservation of Nature) con l’obiettivo di recuperare 150 milioni di ettari di terre degradate entro il 2020 e 350 entro il 2030. Non solo attraverso la riforestazione, ma anche il recupero delle terre arabili, dando di nuovo una prospettiva di vita a milioni di famiglie. Al 2018 erano stati effettuati interventi in 40 Paesi di Asia, Africa, America Latina ed Europa facendo registrare progressi non solo sul piano delle terre recuperate (55 milioni di ettari), ma anche in termini di posti di lavoro creati (350mila) e di tonnellate di carbonio sequestrate (1,38 miliardi). Una piccola luce che fa ben sperare.

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