mercoledì 10 febbraio 2021
A sei mesi dalla devastante esplosione al porto della capitale, il governo non ha varato un piano, mentre a sostenere la popolazione sono aiuti esteri, anche italiani
Libano, profughi e proteste. A Beirut lenta ricostruzione
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Sahar Ammouni, 30 anni, il volto disteso da giovane madonna incorniciato dal velo rosso carminio, può guardare la Siria dalla finestra di casa, in un paesaggio dove si mescolano, in una distesa indistinta, serre, olivi, agrumeti e sfasciacarrozze. A pochi chilometri dal confine libanese con la sua patria, tra i villaggi di Abbas el Gharbi e Haissa, non ne sente la mancanza. Anche se avrebbe sperato di trovare meno diffidenza, in Libano, almeno ha trovato sicurezza, un riparo per lei, i quattro figli e il marito già torturato per sette anni nelle prigioni del governo siriano e oggi impossibilitato a eseguire qualsiasi lavoro, compreso quello nei campi, a causa di ferite psicologiche e instabilità comportamentali. «Qui non è come a Homs, da cui proveniamo. Manca la famiglia estesa e ogni luogo carico di ricordi, ma quantomeno mi affaccio e so che la mia patria è lì». Non sono giorni facili per Sahar che lavora come volontaria per alcune organizzazioni umanitarie negli insediamenti temporanei dei profughi siriani, tra cui l’italiana Operazione Colomba, a pochi chilometri dalla sua abitazione. «Il razzismo è esploso con violenza, la gente qui è esasperata dalla situazione economica e politica. Ovviamente non tutti sono uguali, non tutti scaricano le loro frustrazioni sui siriani».


Il Libano vive un difficile periodo sociale e politico, che rende complessa l’accoglienza dei tanti siriani in fuga

Sahar è testimone di quanto accaduto più di un mese fa nel campo di Miniyeh, dove 370 persone sono state sfollate a causa di un incendio doloso che ha bruciato tutte le 80 tende e qualsiasi bene di proprietà di queste famiglie. Ciò che rimane del campo è una distesa di detriti carbonizzati. Sahar ha visto con chiarezza il diverbio da cui è stato generato tutto e ha testimoniato alle autorità e all’Agenzia per i Rifugiati: «Non c’è nulla da stupirsi. Noi siriani siamo arrivati in un Paese già duramente provato che di certo non può sopportare da solo il peso di tutti i rifugiati. Immaginate un povero che vede arrivare migliaia di ospiti a casa sua e non sa come sfamarli: questo è il Libano». La comunità siriana libanese consta di circa 800mila persone, secondo le stime ufficiali di Unhcr, ma sarebbero molte di più. «La maggior parte dei siriani qui sono lavoratori stagionali: attraversano il confine e non sono nemmeno registrati», riferisce Khaled Kabbara, responsabile locale per l’agenzia dei Rifugiati. L’esercito ha arrestato due libanesi e sei siriani coinvolti nella faida che ha dato origine all’incendio a Miniyeh: nelle loro case sono state trovate armi, munizioni, equipaggiamento militare. Ma non è la prima volta che accadono episodi simili. Nel novembre 2019, 270 famiglie avevano dovuto lasciare la città di Bcharee a causa di reazioni della popolazione locale contro la comunità, per un crimine compiuto da un singolo migrante.


Nel campo di Miniyeh, 370 persone sono state sfollate a causa di un incendio doloso che ha bruciato tutte le 80 tende e i beni di proprietà delle famiglie che scappano dalla guerra e qui trovano riparo

La maggior parte dei libanesi è convinta che i governi, dopo avere dato fuoco ai cittadini, li stiano affamando. Così gridava un manifestante alle proteste della seconda città portuale del Libano, Tripoli, scoppiate con violenza nella settimana dell’anniversario. Una settimana in cui incendi dolosi sono stati appiccati in diversi luoghi della città, perfino contro il municipio. Del resto, da più di un anno, il Libano ha accumulato un debito pubblico che ha raggiunto i 93 miliardi di dollari nel 2020, e una serie di governi fallimentari, contestati duramente e accusati di corruzione già durante la rivoluzione dell’ottobre 2019.

Ma non va meglio adesso, a sei mesi dal 4 agosto in cui 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio dimenticate sciaguratamente nell’hangar 12 del porto, ha sfigurato in modo orribile la capitale, lasciando – oltre a 204 morti, 6500 feriti e 300mila sfollati – più di 2 milioni di abitanti traumatizzati. Il governo non ha varato alcun programma di ricostruzione, affidato solo a investimenti stranieri – soprattutto francesi – e ad aiuti straordinari delle organizzazioni internazionali e delle ong, soprattutto nelle zone prospicienti al porto, le più colpite: la favela di Karantina, i quartieri popolari di Geitawi e Rmeil, la nuovissima Downtown con le costruzioni avveniristiche progettate da Zaha Hadid, l’area della movida di Mar Mikhail e Ashrafye, un agglomerato di antichi palazzetti liberty, alternati a modernissimi condomini in vetro e acciaio.

Proprio dalla caduta di quelle lastre di vetro, quel pomeriggio del 4 agosto, è arrivata la morte più orribile che gli abitanti della zona potessero mai immaginare. Dalaal Saraf, libanese, è la prima moglie di Khaled, cittadino iracheno che da anni si occupa di import-export di datteri tra Iraq e Libano. La sua casa, un palazzetto antico che si sviluppa tutto al pianterreno, con una graziosa corte interna, è stata sventrata dall’esplosione ed è ora in fase di ricostruzione, grazie al progetto #LoveBeirut promosso dalla ong italiana Avsi. Di quel 4 agosto Dalaal conserva il terrore negli occhi e un paio di video che mostrano la prima figlia del marito, Nora, due anni, ferita e piangente, in mezzo alla polvere. «Le scene erano agghiaccianti: un giovane uomo del palazzo vicino è morto decapitato da una lastra di vetro caduta dal grattacielo adiacente al nostro. Non avrei mai creduto di potere assistere a una morte così orribile, dopo avere vissuto la guerra civile». Mashida, giovane siriana del villaggio di Asaka, è la seconda moglie dell’uomo e vive con Dalaal. Sposata in seconde nozze nel 2018, era incinta della seconda figlia Fatma durante l’esplosione. Ricorda: «Abbiamo sentito un rombo, come di un aereo che si abbattesse sulla città e il cielo era diventato improvvisamente rosso fuoco». Dopo l’onda d’urto che ha sbriciolato tutte le vetrate della casa, le due donne hanno vagato per strada in stato di choc. «Credevo che avrei perso il bambino – Mashida deglutisce mentre accarezza delicatamente la piccolissima Fatma ignara di ogni cosa nella sua culla –. Sono riuscita a portare avanti la gravidanza ma non è stato affatto facile». Come per Mashida e Dalaal, sopportare il carico dell’incertezza, della perdita e del ricordo di conflitti già vissuti, non è facile.


Il debito pubblico che ha raggiunto i 93 miliardi di dollari, e governi fallimentari sono stati duramente contestati

Anche Assemian Asnief, cristiana armena di 70 anni, vive in una casa di Ashrafyie, tra le strutture riallestite da Avsi, per un totale di 174 appartamenti e negozi dell’area. Vive qui con il fratello Sarquis, la cosgnata Sgui, il nipote Christian, e due cani, che hanno appena prodotto una cucciolata rumorosissima. Si guarda intorno nel caos della casa con un certo smarrimento, destinando un sorriso ampio alla lavatrice nuova di zecca, fornitale dal programma di aiuti umanitari: «Non so dire come si fosse ridotto il nostro appartamento dopo il 4 agosto. E, ad aggiungere altra pena, per noi armeni cristiani, c’è stata la guerra nel Nagorno Karabak, che ci ha reso ancora più tristi, arrabbiati, impotenti». Un cugino di Assemian è partito per la guerra e non ha fatto più ritorno, e numerosi tra coloro che sono rientrati hanno contratto il Covid, contagiando le loro famiglie. Alcuni conoscenti della famiglia Asnief sono morti per il virus. «In questi due anni, a Beirut, non c’è stato fine alla pena di vivere». A pochi minuti di auto da casa Asnief, nel pieno del coprifuoco imposto dalle autorità libanesi per arginare la pandemia che ha finora fatto 3.300 morti, il pulsante quartiere armeno di Burj Hammoud è come un cuore senza sangue, a cui si siano ritirate le arterie, vuoto com’è di ogni forma di vita, fatta eccezione per le statue dei santi Gregorio e Lazaro che guardano la strada dagli altarini di ogni crocicchio, sempre benedicenti.

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