Per la prima volta le Ong israeliane accusano Israele di genocidio
di Redazione
B’Tselem e Physicians for Human Rights (Phr) utilizzano la parola per descrivere le politiche attuate dallo Stato di Israele nei confronti del popolo palestinese nella Striscia

«Non avremmo mai immaginato di scrivere questo rapporto, ma negli ultimi mesi abbiamo visto una realtà che non ci ha lasciato nessuna scelta se non quella di riconoscere la verità: Israele sta commettendo un genocidio». Lo ha detto in ebraico, arabo e inglese la presidente dell’Ong B’Tselem, Orly Noy. È la prima volta che due Ong israeliane, B’Tselem e Physicians for Human Rights (Phr), utilizzano la parola genocidio per descrivere le politiche attuate dallo Stato di Israele nei confronti del popolo palestinese nella Striscia di Gaza. L’occasione è stata la pubblicazione di due studi che raccolgono una considerevole mole di dati, testimonianze e documenti, presentati alla stampa riunitasi nella sala conferenze dell’hotel Ambassador, nel quartiere di Sheikh Jarrah, Gerusalemme Est.
«Per ventidue mesi gli ospedali sono stati attaccati, ai pazienti sono state negati trattamenti salva-vita e gli aiuti sono stati impediti. Questo è un chiaro modello volto alla distruzione di un popolo. È nostro dovere di medici affrontare la verità e fare tutto ciò che è in nostro potere per proteggere i nostri colleghi, che a Gaza rischiano la vita per salvare le persone in condizioni impossibili», ha affermato Guy Shalev, direttore esecutivo di Phr.
Il nostro genocidio e Distruzione delle condizioni di vita: una analisi medica del genocidio di Gaza, da ieri disponibili in rete, sono due report di 88 e 65 pagine, rispettivamente. Entrambi, sostengono i rappresentanti delle due Ong, sono attraversati dallo stesso schema di fondo: la lunga storia di violenza, discriminazione e isolamento cui sono stati sottoposti i palestinesi nel regime di occupazione militare ha creato le condizioni perché il sistema politico, culturale e sociale israeliano, innescato dall’attacco terroristico del 7 ottobre, reagisse con pratiche che chiaramente esulano dal diritto internazionale, fino all’estrema conseguenza del genocidio. Le ricerche affondano nel passato e paventano un’estensione dei metodi utilizzati nella Striscia alla Cisgiordania, già parzialmente in atto.
«Niente ti prepara per il momento in cui realizzi di essere parte di una società che sta commettendo un genocidio. È un momento molto doloroso per noi», ha spiegato con la voce rotta Yuli Novak, direttrice esecutiva di B’Tselem. In risposta alle domande dei giornalisti sul concetto di «intenzionalità», fondamentale perché il genocidio possa avere spessore legale, Novak ha detto: «Sappiamo dalla storia che il sistema legale internazionale arriva alle conclusioni con grave ritardo, quando il danno è già stato fatto. Tutti hanno sentito il nostro presidente, il primo ministro, il ministro della Difesa distribuire le colpe di Hamas su tutta la popolazione di Gaza. Li abbiamo sentiti chiamare i gazawi “animali umani” e “amalek”, i “nemici eterni». Abbiamo sentito le stesse parole poi dai comandanti sul campo, cantate dai soldati: “non esistono innocenti, Gaza deve essere distrutta”. Abbiamo visto i risultati. Dobbiamo guardare all'intento non solo come legali, ma come persone con occhi, cuore e mente».

«È come se nella Striscia Israele stesse seguendo un manuale: l’ordine di evacuazione degli ospedali getta centinaia di persone bisognose di cure in mezzo alla strada. Poi l’ospedale viene bombardato, e cessa di funzionare. Dal 7 ottobre sono 36 gli ospedali distrutti», spiega Aseel Aburass, direttrice delle ricerche sul campo per Phr. Che aggiunge: «Il nostro rapporto si concentra sull’articolo 2c della Convenzione sul genocidio: la deliberata intenzione di creare condizioni di vita insostenibili, capaci di determinare la distruzione di un gruppo. Questa definizione legale riconosce che il genocidio possa verificarsi attraverso azioni che colpiscono le infrastrutture, non soltanto attraverso i massacri». Secondo lo studio, sarebbero almeno 1.500 gli operatori sanitari uccisi, 300 gli arrestati.
Numerose le proteste, i richiami ufficiali portati all’attenzione del governo di Tel Aviv e della comunità internazionale in questi ventidue mesi, confermano tutti i relatori. Nessuna azione decisiva è seguita. «I nostri operatori a Gaza e in Cisgiordania hanno pagato personalmente per le loro ricerche. Molti dei loro familiari sono stati uccisi o feriti. I nostri colleghi israeliani hanno sofferto e soffriranno l’isolamento», ha sottolineato Kareem Jubran, da due decenni a capo del lavoro di ricerca sul campo per B’Tselem. Qualcosa sta cambiando, tuttavia, nella percezione degli israeliani, anche se «sono pochi, ancora pochi a voler vedere», afferma Yuli Novak. Allo stesso modo comincia a mostrare importanti cedimenti il muro di colpevole passività della comunità internazionale. «È difficile superare la linea, perché superarla smantella la nostra identità profonda, ci dice chi siamo, e cosa vogliamo essere. Ma quando ciò avviene diventa chiarissimo ciò che devi fare. Spero che molte persone possano presto intraprendere la strada che porta alla fine del genocidio».
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