martedì 6 giugno 2023
La preziosissima opera, dipinta da Rubljov nel 1422, è stata sottratta alle cure della Galleria Tretjakov per essere esposta in Cattedrale e usata come strumento di propaganda politica
La Trinità esposta nella Cattedrale di Cristo salvatore domenica 4 giugno

La Trinità esposta nella Cattedrale di Cristo salvatore domenica 4 giugno - Ansa

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Anche in una guerra crudele come quella scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina, i simboli contano. Volodymyr Zelensky ha scelto di indossare sempre e ovunque la maglietta grigioverde dei soldati, per mostrare la totale partecipazione al destino del suo popolo. Vladimir Putin, che un tempo si faceva ritrarre anche in tenute militari, sportive o addirittura a torso nudo, ora non abbandona più la grisaglia dell’uomo solo al comando, gravato di responsabilità, anzi, come vedremo tra poco, impegnato a salvare il mondo. Altro simbolo.

Putin, però, manda molti ulteriori segnali, organizzati ad arte per sfruttare l’elemento religioso a fini politici e per sollecitare il misticismo patriottico che ancora alberga in molti russi.

Torniamo all’ultima Pasqua ortodossa, domenica 16 aprile. Il 15 Putin firma il decreto con cui ordina alla Galleria Tretjakov di cedere la preziosissima e fragilissima icona “La Trinità”, dipinta intorno al 1422 dal monaco Andrej Rubljov (santo per la Chiesa ortodossa russa), al Patriarcato di Mosca affinché venisse esposta nella cattedrale di Cristo Salvatore - cosa accaduta domenica 4 giugno, solennità della Pentecoste, quando migliaia di fedeli sono sfilati in adorazione - e poi sistemata, ieri, nel monastero della Trinità di San Sergio a Sergeev Posad, il piccolo centro a 70 chilometri da Mosca che molti chiamano “il Vaticano russo”. Il giorno di Pasqua, Putin partecipa alla liturgia nella suddetta cattedrale.

E il giorno dopo vola a Kherson e Lugansk, capoluoghi di due delle regioni ucraine annesse alla Russia, per incontrare i generali e donare alle truppe la replica di un’altra icona molto nota, “Il Salvatore non dipinto da mano d’uomo”. Questa, da quel giorno, inizia una specie di pellegrinaggio di unità in unità, offerta alla devozione dei soldati. Tutto, è chiaro, non per caso né per fede.

Le due icone devono idealmente unire nello spirito chi combatte con chi è a casa. E rilanciare la teoria che il patriarca Kirill aveva esposto fin dai primi giorni dell’invasione, di nuovo nella cattedrale di Mosca: l’Ucraina è ultima adepta dell’impero del male americano che vuole imporre teorie da “gay parade” (testuale) e quindi far deragliare l’umanità nel peccato mortale. Chi combatte tutto questo cerca di salvare l’umanità, quindi è un benefattore. La Russia come Paese aggredito e non aggressore, Putin ultimo baluardo dei valori fondamentali. Perfetto per il Cremlino.

Dentro quell’operazione, poi, ci sono mille riferimenti che sfuggono magari all’opinione pubblica occidentale ma ai russi no. La Cattedrale di Cristo Salvatore era stata costruita in memoria della vittoria su Napoleone. Il santo Rubljov aveva a lungo vissuto a Sergeev Posad e aveva dipinto la famosa icona proprio per la canonizzazione di San Sergio. “La Trinità” era stata elevata al rango di “icona delle icone” nel 1511, nel concilio dei Cento Capitoli, che era stato diretto dal metropolita Macario e ancor più dallo zar Ivan il Terribile, il sovrano che, cacciando i tatari ed espugnando i loro kanati, pose le basi dell’impero russo multinazionale, multietnico e multireligioso a cui la teoria putiniana del “russkij mir” in qualche modo si ispira.

Anche nella Russia del patriottismo obbligatorio, comunque, resistono voci poco disposte a sacrificare i capolavori e i princìpi alla realpolitik. Elena Pronicheva, direttrice della Galleria Tretjakov, ha preteso, pena le dimissioni e quindi uno scandalo, che l’icona fosse assicurata per 500 milioni di dollari prima di essere anche solo sfiorata. L’arciprete Leonid Kalinin, capo della Commissione per le arti del Patriarcato, ha detto che «la Chiesa e la leadership del Paese devono capire che l’icona non è trasportabile» ed è stato per questo sollevato da ogni incarico. E anche Elizaveta Likhacjova, succeduta tre mesi fa a un’istituzione come Marina Loshak alla guida del Museo Pushkin, ha detto chiaro e tondo che l’icona «potrebbe semplicemente cadere a pezzi».

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