domenica 15 novembre 2009
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«Da che mondo è mondo lo sviluppo passa dall’agricoltura, dal coltivare. L’impegno che dobbiamo assumere con questo vertice è dunque quello di estendere al massimo la produzione agricola dei Paesi più poveri». Il ministro delle Risorse agricole, Luca Zaia, interverrà martedì mattina all’assemblea della Fao. Intanto sta ultimando un piano straordinario d’intervento per il settore agricolo italiano, che presenterà la prossima settimana.Ministro, l’Italia con quali proposte va al vertice?Anzitutto ci presentiamo forti di due appuntamenti importanti organizzati in Italia: il G8 dei ministri agricoli a Cison di Valmarino (Treviso) dell’aprile scorso e il G8 dell’Aquila a luglio, durante il quale sono stati aumentati da 15 a 20 miliardi di dollari i fondi impegnati per fermare la fame nel mondo. Le grandi potenze sono coscienti del fatto che l’accesso al cibo dev’essere il primo obiettivo con un miliardo di persone che soffre la fame...Ministro, la fermo. Il governo aveva già promesso il saldo dei fondi per raggiungere gli obiettivi del millennio, ma non ci risulta sia avvenuto. Intanto cala il nostro contributo alla cooperazione internazionale. C’è un impegno reale o sono solo buone parole?Il nostro impegno è profondo. Certo, da parte di tutti i Paesi occidentali c’è stato un rallentamento nel flusso degli aiuti dovuto alla grande recessione internazionale. D’altro canto, se si devono trovare 8 miliardi di euro per i nostri ammortizzatori sociali, non si possono destinare più fondi altrove.Secondo i vertici della Fao è necessario incrementare del 70% la produzione agricola per soddisfare i bisogni alimentari della popolazione mondiale. Per altri, invece, è necessaria una migliore distribuzione delle risorse tra Nord e Sud del mondo.Su questo tema ho discusso con diverse personalità nella mia visita a Washington e a New York, fra le quali il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, e sono d’accordo con il direttore generale della Fao Jacques Diouf, sulla necessità di incrementare fino a raddoppiare la produzione agricola. Ovviamente per quanto riguarda i Paesi in via di sviluppo, perché in Occidente siamo nella condizione opposta: produciamo già più cibo di quel che possiamo consumare. Occorrono invece investimenti e nuove tecnologie per estendere al massimo le coltivazioni nelle nazioni più povere, sviluppare l’aridocoltura, trasferendo il nostro "saper fare", anche attraverso iniziative di formazione in loco.Le biotecnologie, gli ogm possono essere una strada per lo sviluppo o sono troppo rischiosi?Se venisse offerto un grano transgenico coltivabile nelle zone desertiche del Sudan, perché non approfittare di quest’occasione di sviluppo a favore dell’uomo? Qui da noi, invece, non ha senso introdurre gli ogm: si favorirebbe solo il business delle multinazionali.Si ripropone il nodo di un’agricoltura europea fortemente sussidiata contrapposta a quella dei Paesi in via di sviluppo sulla quale si mettono i dazi.I produttori europei sono già oggi totalmente fuori mercato. Senza sussidi semplicemente scomparirebbero, senza i dazi verrebbero cancellati. Faccio un esempio: il latte oggi viene pagato 28 centesimi al litro agli allevatori, ma a loro produrlo costa circa 40 centesimi. Dopo il Doha round si era proposto di togliere il dazio sull’importazione di riso in Europa. Mi sono fermamente opposto perché, certo i produttori vietnamiti se ne sarebbero avvantaggiati, ma noi nel novarese non avremmo più neanche una risaia.In effetti anche la nostra agricoltura è in forte sofferenza e non mancano le proteste. Come si contrasta la crisi?Qualche volta le proteste sono strumentali, come se la crisi dipendesse dal governo o da qualche legge. In realtà siamo in presenza di un problema comune agli agricoltori di tutta Europa: il crollo dei prezzi alla produzione. Qualche esempio: le susine sono scese del 60%, le pesche del 45%, le mele del 30%. Così pure i consumi di formaggi sono scesi del 5-6%. È chiaro che in questa situazione tutti soffrono. Ma a maggior ragione occorre valorizzare le nostre produzioni tipiche, puntare sull’identità e non cercare di concorrere con gli altri sul prezzo. Servono investimenti strutturali e sostegni, ma soprattutto una tracciabilità chiara, l’etichettatura che dica dove è stato coltivato e trasformato quel prodotto. Oggi noi produciamo 11,5 milioni di tonnellate di latte, altri 8 milioni li importiamo dall’estero, ma il consumatore quando acquista un litro a lunga conservazione non sa se quel latte viene da vacche italiane o è stato munto in Lituania. Alleviamo maiali per 14 milioni di cosce, altre 54 milioni di cosce le importiamo. Ma chi sa il prosciutto da dove viene?
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