giovedì 9 luglio 2009
Hu Jintao lascia il G8 e torna a Pechino. Gli uighuri denunciano: tra 600 e 800 le vittime. «Puniremo tutti i responsabili». Tensione altissima nella capitale Urumqi. Migliaia gli uomini delle forze paramilitari cinesi schierati per presidiare i punti caldi della città. Voci di linciaggi e di nuove proteste.
- IL COMMENTO di Fulvio Scaglione
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Pena di morte per i sobillatori della rivolta. Pena di morte per chi «ha ucciso brutalmente nel corso degli scontri», come ha annunciato Li Zhi, alto funzionario e leader del partito comunista di Urumqi. La Cina – a una manciata di giorni dall’esplosione della violenza nello Xinjiang che ha costretto il presidente cinese Hu Jintao a disertare il G8 e a tornare precipitosamente in patria – promette il pugno di ferro per punire i «responsabili» della rivolta. Come per il Tibet, il regime mette in atto la stessa strategia. Punizione dei «capi». E «militarizzazione» della regione autonoma, con l’impiego di migliaia di uomini delle forze paramilitari, dispiegati nei punti “caldi” della capitale. La situazione nella regione resta tesa. E pronta ad esplodere nuovamente. Anche ieri tanto gli uighuri che i cinese han – ormai la maggioranza della popolazione dopo le politiche di incentivazione all’immigrazione volute da Pechino – sono scesi in strada. Armati. Pronti a sfidarsi. Il rischio che si riproduca lo scenario che domenica ha portato alla morte di 156 persone e al ferimento di altre 900 è alto. Il sindaco della città Jerla Isamudin si è precipitata ad assicurare che la situazione in città è «tornata sotto controllo». I leader uighuri in esilio contestano anche il bilancio della «carneficina». Le stime fornite dal governo cinese? Al ribasso. Secondo il segretario del Congresso mondiale degli uighuri, Dolkun Isa, la cifra «reale» oscilla tra i 600 e gli 800 morti – tremila gli arrestati –, mentre Rebiya Kadeer, la leader da anni all’estero, ha dichiarato che le vittime sono oltre 400. La Kadeer, un’imprenditrice di 62 anni che vive in esilio dal 2005 additata da Pechino come la vera “mente” della rivolta, sostiene che incidenti «potrebbero» essersi verificati anche nelle città di Kashgar, Yarkand, Aksu, Khotan e Karamay, anche se «è difficile da dire a causa della propaganda dello Stato cinese». Notizie «non confermate», ha proseguito la dissidente, parlano di cento uighuri uccisi a Kashgar. Fonti giornalistiche hanno, poi, riferito di episodi di linciaggio di uighuri da parte di cinesi di etnia han. Un giornalista dell’agenzia France Presse ha raccontato di aver assistito, attirato dalle urla, al violento pestaggio di un uomo a terra a calci e pugni da parte di una ventina di han armati anche di bastoni in un quartiere attiguo alla centrale piazza del Popolo. Un minuto dopo è intervenuta la polizia in tenuta antisommossa che ha disperso la folla e ha soccorso la vittima. Non ci sarebbe stato alcun arresto da parte della polizia. Il precipitoso rientro di Hu Jintao, per gli analisti internazionali, è la prova che la situazione nella regione rimane grave. L’ideale della «società armoniosa» sembra naufragare contro l’irriducibilità del Tibet prima, dello Xinjiang oggi. Nessuno dei nove membri del Comitato Permanente del comitato centrale comunista, gli uomini più potenti della Cina, ha finora parlato in pubblico della crisi. A fronteggiare l’opinione pubblica cinese e i giornalisti stranieri sono stati lasciati i dirigenti locali del Xinjiang, per i quali il ritorno di Hu Jintao costituisce una «perdita della faccia», vale a dire una implicita manifestazione di sfiducia da parte delle massime autorità. Per cercare una situazione analoga, per alcuni aspetti, a quella di oggi, bisogna risalire al 1989, quando, con la protesta studentesca in pieno svolgimento, l’allora segretario del Partito Zhao Ziyang – con una decisione di segno opposto rispetto a quella presa da Hu Jintao – partì per una visita all’estero di una settimana. Al suo ritorno, Zhao si schierò contro la decisione di usare la forza contro gli studenti che occupavano piazza Tiananmen. In seguito fu deposto e tenuto agli arresti domiciliari fino alla sua morte, nel 2005. Infine la reazione turca. Per il premier Tayyip Erdogan le violenze avvenute nei giorni scorsi «hanno preso la dimensione di atrocità». Il ministero degli Esteri ha poi invitato a un maggior controllo per evitare un aumento della tensione nella regione, abitata in maggioranza da uighuri, turcofoni e di religione musulmana. Ankara ha espresso «dispiacere e preoccupazione» per la situazione e sottolinea come gli uighuri rappresentino «un ponte di amicizia tra la Turchia e la Cina». Il ministero degli Esteri ha quindi auspicato che i responsabili delle violenze vengano individuati e puniti al più presto e che le azioni della polizia per riportare l’ordine si svolgano con «la massima attenzione per evitare la violazione dei diritti umani e per salvaguardare la vita e la sicurezza dei civili».
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