sabato 3 dicembre 2022
Iryna per 5 giorni è stata seviziata da uomini del battaglione Vostok perché considerata una spia ucraina. Salvata da una foto del «New York Times», ora raccoglie prove degli stupri di guerra
«Trascinare in aula i miei violentatori è la spinta che mi fa sopravvivere»

Ansa

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Perdono? Iryna Dovhan quasi non crede alle sue orecchie: «Cosa? Perdono?», ripete. Poi, sbarra i suoi grandi occhi verdi e, severa, risponde: «Non possiamo permetterci anche solo di pensarlo». La donna, classe 1962, è un’ucraina violentata e torturata dai filorussi del Donbass nel 2014. È arrivata a Londra per partecipare a una conferenza internazionale sulla violenza sessuale come arma di guerra organizzata dal Foreign Office. Lontano dal palco su cui è salita a raccontare come l’associazione di cui fa parte, Sema Ukraine, aiuta le vittime degli abusi a venire allo scoperto, Iryna sveste i panni della superdonna che irradia coraggio a chilometri di distanza e si mette a nudo. Decide di spiegare con una foto, senza bisogno dell’interprete, perché, per lei, «non è ancora tempo di misericordia».
Nello scatto di otto anni fa, recuperato seduta stante sul cellulare, è immortala con un cartello appeso al collo che recita: «Uccide i nostri bambini». È legata a un palo stradale, a un incrocio di Donetsk, e ha il volto sporco di pomodori marci lanciategli in faccia dai separatisti russi passati lì apposta a deriderla e umiliarla. L’immagine che sintetizza solo in parte le atrocità subite in cinque giorni di prigionia, ostaggio del battaglione Vostok perché considerata spia, è anche quella a cui deve la vita. Il suo corpo linciato, avvolto in una bandiera dell’Ucraina, intercettò allora l’obiettivo di Mauricio Lima, il fotografo che, ottenuta la pubblicazione degli scatti dal New York Times, portò il caso all’attenzione degli osservatori Onu per i diritti umani. Pare che la sua liberazione fu negoziata da due giornalisti, Mark Franchetti, del britannico Sunday Times, e Dmitrij Beliakov, freelance russo, con il leader dei separatisti, Alexandr Khodakovsky. «Ecco perché non posso perdonare – commenta mostrando la foto – non conosco nessuno che abbia voglia anche solo di pensare a questa eventualità. Siamo troppo concentrati a sopravvivere».
A Iryna, ex titolare di un salone di bellezza a Yasynuvata, alla periferia di Donetsk, interessa solo una cosa: che sia fatta giustizia. «Sto vedendo morire, una dietro l’altra, le persone che mi hanno torturato – spiega –. Qualche giorno fa se n’è andato senza pagare anche il terzo». Trascinare in tribunale i responsabili degli abusi, già adesso, a conflitto ancora in corso, è lo scopo che le dà la forza di andare avanti. Le ragazze che l’accompagnano, vittime come lei degli stupri, vecchi e recenti, le si stringono attorno come a sorreggerla. Insieme lavorano per raccogliere prove degli abusi da segnalare alle autorità, nazionali e internazionali, chiamate a investigare i crimini di guerra.
Alisa Kovalenko, 35 anni, regista-soldato, è una di loro. «Non è facile – sottolinea – perché molte non sono ancora pronte a parlare. Io stessa ci ho messo tempo a venire allo scoperto. Pensavo che non fosse necessario perché, in fondo, potevo nascondere il trauma nel profondo del mio inconscio. Non era vero».
Il peso sul cuore che ciascuna si porta dentro non è solo privato. «Ho visto donne uscire di casa nude alla ricerca di bambine, le proprie figlie, portate via dai militari filorussi», svela Iryna poggiando la mano su quella di Alisa: «È impossibile rimanere sé stesse dinanzi a tutto questo e ogni giorno è sempre peggio». La donna si alza e lascia la stanza al quarto piano del Queen Elisabeth Center rimandando al mittente lo slancio di chi la saluta dicendole “che Dio ti benedica!”. «Quante cose senza senso si dicono in questi frangenti», risponde, «la realtà a cui devo tornare è puro inferno».
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