giovedì 20 gennaio 2011
Iniziata la visita del presidente comunista, una missione che secondo Washington «getterà le basi della cooperazione per i prossimi 30 anni». Il capo della Casa Bianca ha chiesto la creazione di un «campo da gioco equo per le società americane» nel Paese asiatico ed ha esortato a «permettere scambi di opinione» sul nodo della democrazia.
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I due uomini più potenti del mondo siedono di fronte al caminetto dello Studio Ovale, le macchine fotografiche scattano a raffica, e le telecamere catturano uno stralcio di conversazione. «Sì, 35 gradi (Farenheit) sono normali a Washington a gennaio», assicura Barack Obama a Hu Jintao, intirizzito dopo 45 minuti di cerimonia di benvenuto all’aperto. Chiacchiericcio di fronte ai giornalisti, in attesa di chiudere la porta e parlare di cose più serie. Ma i media americani si sono buttati sull’aneddoto per dimostrare che la visita del presidente cinese, che ieri Obama ha definito determinante per «gettare le basi della cooperazione tra Usa e Cina per i prossimi 30 anni», rischia di portare a casa poco più di «qualche battuta sul tempo».L’autorità di Hu appare indebolita in patria, spiegano gli esperti Usa, elencando le assicurazioni fatte durante i sette precedenti incontri con Obama di lasciar rivalutare lo yuan, rispettare i brevetti americani e usare la propria influenza economica per contenere l’aggressività nordcoreana – accantonate dal leader cinese di fronte alle pressioni domestiche. Quanto al presidente Usa, il suo messaggio che intende usare «una linea dura» con l’omologo cinese su valuta, disavanzo della bilancia commerciale, diritti umani e riarmo nel Pacifico non ha del tutto convinto un’opinione pubblica, un Congresso e un mondo del lavoro sempre più ostili a Pechino. Per quanto forti i suoi richiami possano apparire durante la tre giorni di Hu, non lo saranno mai abbastanza per i sindacati e buona parte del mondo industriale e politico, concordi che la Cina usa sussidi statali, pirateria intellettuale e svalutazione della propria valuta per usurpare la supremazia economica americana.I limiti di Obama derivano anche dalla realtà di un interlocutore a due passi dalla pensione, che a scapito delle assicurazioni fatte ieri di voler voler «aprire un nuovo capitolo» nella cooperazione con gli Usa, è più che altro preoccupato di consolidare la sua statura internazionale. In questo senso Hu si era già garantito il successo della visita prima di lasciare Pechino, quando la Casa Bianca gli ha assicurato l’onore della visita di Stato che gli era stata negata nel 2006 da George W. Bush. La delegazione cinese ieri sperava solo che l’Amministrazione democratica evitasse le gaffe del suo predecessore, che permise a una manifestante di interrompere il discorso di Hu e confuse la Repubblica popolare cinese con Taiwan. E che per una sera Obama ignorasse il paradosso di un premio Nobel per la pace che ospita con tutti gli onori il capo dello Stato che incarcera un altro premio Nobel per la pace. In cambio, ha offerto al padrone di casa qualche gesto di apertura, come l’impegno ad acquistare beni americani per 45 miliardi di dollari e il riconoscimento, a parole, della «universalità dei diritti umani». Ma non molto di più. No comment, ad esempio, alla domanda di un reporter sulla volontà cinese di accogliere il suggerimento di Obama a «dialogare con il Dalai Lama per risolvere le differenze nel preservare l’identità religiosa del popolo tibetano».La strada da fare dunque è lunga. Obama sembra però deciso a percorrerla, e in occasione di questa visita ha perlomeno dimostrato di avere messo a punto una strategia coerente per gestire i rapporti con il partner del G2, come è stato definito il summit sinoamericano. Oltre a non rinunciare ai richiami al rispetto dei diritti umani e a una crescita economica più responsabile – «sono stato molto franco con il presidente Hu», ha detto ieri Obama – la sua Amministrazione nei mesi scorsi ha stretto i rapporti con l’India e le regioni del Sudest asiatico, con il Giappone e con la Corea del Sud. Un segnale che i 21 colpi di cannone di benvenuto non equivalgono al riconoscimento automatico della potenza cinese. E che se Hu vuole continuare sulla via della «sana competizione» celebrata ieri a Washington deve rispettare gli impegni che l’ospite ieri gli ha cortesemente ricordato: creare un «campo di gioco equo per le società americane in Cina», «permettere scambi di opinione sui diritti umani» e lasciare che il valore dello yuan, che «rimane sottovalutato», sia «guidato dal mercato». Altrimenti al prossimo incontro non resterà davvero che parlare del tempo. NUOVA AMICIZIA DA 45 MILIARDI«Experience China», sperimenta la Cina, invita un cartellone luminoso comparso da qualche giorno a Times Square, mentre da un megaschermo decine di volti di cinesi, comuni o famosi come il cestista Yao Ming e il regista John Woo sorridono ai passanti. È un’espressione del “soft power” con cui la Cina vuole controbilanciare l’immagine di regime autoritario e di concorrente sleale che sottrae posti di lavoro e ricchezza al resto del mondo. L’offensiva culturale non sembra aver però riabilitato l’idea che gli americani hanno dell’Impero di Mezzo. Nonostante una sempre maggiore presenza di turisti cinesi negli Stati Uniti (circa 83 milioni di cinesi ogni anno viaggeranno all’estero di qui al 2015), gli statunitensi restano scettici circa la volontà di Pechino di contribuire alla crescita economica mondiale e, quindi, americana. La nostra pazienza è finita, sostenevano ieri una manciata di parlamentari pronti a istituire nuove tariffe contro le importazioni dalla Cina, mentre il presidente del Senato, il democratico Harry Reid, chiamava Hu Jintao un dittatore. I numeri e gli eventi dell’ultimo anno sembrano dare loro ragione. Fino ad oggi la Cina aveva investito solo circa 6 miliardi di dollari in America (senza contare gli 850 miliardi in buoni del Tesoro statunitensi), mentre ha venduto agli Usa 275 miliardi più di quanto ha comprato. E i giornali Usa hanno dato ampio di rilievo alle censure cinesi a giganti dell’imprenditoria americana come Google, Yahoo e Facebook. Ma qualcosa potrebbe cambiare. Proprio ieri Washington e Pechino hanno annunciato un accordo per esportazioni verso la Cina per 45 miliardi di dollari. Nella borsa della spesa di Hu sono finiti 200 aerei della Boeing la cui costruzione sosterrà 100mila posti di lavoro per due anni. Altri affari sono stati siglati con Honeywell e Caterpillar. «La crescita cinese offre molte opportunità e gli Stati Uniti possono più che raddoppiare le esportazioni verso la Cina», ha assicurato ieri Barack Obama, invitando gli americani ad abbandonare «i vecchi stereotipi» secondo i quali la Cina sottrae occupazione. Secondo il capo della Casa Bianca, infatti, «i rapporti sono più complessi di questo e hanno anche un maggiore potenziale». I suoi concittadini possono solo sperare che abbia ragione.
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