I droni disegnano il globo terrestre nel cielo davanti al Palazzo dell'Onu a New York che da martedì aprirà i lavoro dell'Assemblea generale: il clima sarà uno dei temi al centro dei dibattiti - ANSA
Quando il primo gennaio del 2017 si insediò al 38esimo piano del grattacielo disegnato da Oscar Niemeyer a New York raccogliendo il testimone di Ban Ki-moon, che aveva fatto dei flussi migratori uno dei temi forti della fine del suo mandato, l'agenda che Antonio Guterres si trovò fra le mani venne considerata la più scottante degli ultimi sessant'anni: dal Medio Oriente al Pacifico, dal Corno d'Africa al Baltico, dal Sahara alle coste del Mediterraneo il mondo attraversava conflitti e tensioni mai sperimentati dalla crisi missilistica di Cuba. Guterres non poteva immaginare – o forse sì, ma scaramanticamente tratteneva per sé simili pensieri – che le cose avrebbero potuto peggiorare su ogni fronte. Dallo sviluppo sostenibile alla lotta al cambiamento climatico, dalle sfide sanitarie ai conflitti che divampano in varie parti del mondo, gli interventi dell’“alto livello” della settantottesima assemblea generale dell’Onu si apriranno martedì e affronteranno due temi cruciali destinati a dominare l’agenda 2023: la guerra in Ucraina e la riforma dell’Onu stessa. La star dell’assemblea generale sarà certamente Volodymyr Zelensky, presente di persona, dopo l’incontro che avrà con Joe Biden e un discorso davanti al Congresso, per perorare la causa degli aiuti statunitensi da 24 miliardi di dollari per altre armi.
Ma attorno al Palazzo di Vetro si assieperà la pressione sempre più intensa di quel “Sud del Mondo” che nelle ultime settimane ha mostrato le ali e insieme le proprie unghie, dal summit dei Brics di Johannesburg al G20 di New Delhi, fino al G77 dell’Avana, il vertice dei Paesi in via di sviluppo fondato nel 1964 (nel frattempo saliti a 134) che rappresentano l’80% della popolazione mondiale e reclamano, capeggiati dalla Cina, un nuovo ordine economico mondiale. La Cina, appunto, che si presenta all’Assemblea generale con la ferma intenzione di superare quel modello occidentale a trazione americana a favore di una governance globale che all’insegna di un multilateralismo a parole condiviso da quasi tutti reclama per Pechino il posto di capotavola al banchetto dei grandi del mondo.
E a scanso di equivoci, rinunciando allo sperimentato soft power che tiene la Cina a margine dei conflitti, Pechino in questi giorni schiera attorno a Taiwan una flotta aeronavale di inedite e impressionanti dimensioni. Non occorre particolare acume per decifrare il carico che Xi Jinping metterà sul tavolo dell’Assemblea generale: la Cina guida e capeggia la sua sfida proclamando l’avvento di una nuova era, il cui motto sarà Comunità, Identità, Stabilità. Le medesime esatte parole – ma sarà un caso… - con cui nel 1932 Aldous Huxley nel suo Brave New World dipinse una raggelante distopia nella quale l’individuo è ridotto a atomo tecnologicamente utile e condizionato.
Alfiere dei Brics ora estesi a competitor vogliosi di contare come Argentina, Algeria, Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran, Messico, Pakistan, Venezuela, il Dragone esibisce come una medaglia la sua “partnership senza limiti” con Vladimir Putin. All’altro capo del tavolo c’è l’America, con quella guerra alla quale non riesce (o non vuole) porre fine, con la fragilità politica di un presidente in caduta libera sul piano della popolarità nonostante la buona performance dell’economia, trafitto da una richiesta di impeachment che indebolisce l’istituto stesso della messa in stato d’accusa: Biden e Trump ormai pari sono. Toccherà dunque far leva sull’appeal mediatico del presidente Zelensky nel suo inesausto shopping di armamenti, al quale perfino Macron lascerà il posto d’onore nella scaletta degli interventi, per rinsaldare una “coalizione dei volonterosi” che mostra da tempo più di una crepa, non soltanto in terra americana.
Il resto – che pure è molto: dal grande freddo fra Biden e Netanyahu al compromesso sul programma nucleare iraniano bloccato fra l’appoggio di Mosca e i tentativi di mediazione americani, dal patto suggellato da Putin nel cosmodromo siberiano di Vostoènyi con il “brother in arms” Kim Jong-un all’accordo sul grano ucraino su cui si cimenta per ora senza esito Erdogan, fino al cambiamento climatico e le drammatiche conseguenze che ogni ritardo comporta su scala mondiale -, rischia di passare in seconda linea.
«Il mondo è un’unica grande famiglia», ha ricordato pochi giorni fa il leader indiano Narendra Modi. «Ma la famiglia mondiale è disfunzionale», precisa Guterres, riconoscendo che l’Onu di cui esercita il segretariato generale è una macchina gloriosa ma vetusta, come le Cadillac e le Studebaker che circolano a Cuba, pittoresche vestigia del fai-da-te castrista e insieme testimonianza di un passato irrecuperabile.
Di fronte all’avanzata trionfale dei Brics e del Sud del mondo che reclama il suo legittimo posto al sole il Palazzo di Vetro simboleggia un’epoca criogenizzata nel riassetto geopolitico stabilito dalle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale. Potenze, come Cina e Russia (ma anche gli Usa con i veti a favori di Israele) che si alternano nell’inceppare la maggior parte delle risoluzioni sgradite. Un ferrovecchio, l’Onu, tutti lo sanno. Ma come si fa senza? E come faranno i riformatori a riformare se stessi?
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