venerdì 6 novembre 2009
Nella base militare Usa uno psichiatra inizia a sparare all'urlo di «Allah è grande». Tredici le vittime, altri 31 i militari rimasti feriti. Il maggiore, di origini palestinesi, era «turbato» dall’imminente partenza per l’Afghanistan. È stato ucciso da una poliziotta.
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Era consumato dalla paura. Lo rodeva un tarlo: dover partire. Raggiungere la prima linea. L’Afghanistan. Forse lo angustiava la possibilità di imbracciare le armi contro persone che condividono la sua stessa fede, quella musulmana. Chi conosceva bene il maggiore Nidal Malik Hasan – l’uomo che ha seminato morte a Fort Hood, Texas, la più grande base dell’esercito americano, urlando «Allah è grande» vestito con abiti arabi e sparando all’impazzata contro i suoi commilitoni – lo descrive oggi come sempre più «nervoso, irascibile». Uno che se ne stava per conto suo, un «solitario». La famiglia ha anche accusato: aveva subito delle pressioni, forse di più, delle angherie dai suoi stessi compagni per la sua fede. «Voleva lasciare l’esercito – ha rivelato raccontato il cugino, Nader Hasan –. Aveva già assunto un avvocato per tentare di risolvere il problema: era disposto a rimborsare lo Stato per poter lasciare l’esercito, ma era ormai al limite delle sue possibilità». C’è chi sostiene che il suo stesso lavoro – psichiatra dell’esercito, specialista in stress post-traumatici, sempre a contatto con i reduci e con le loro «ferite» fisiche e psicologiche – lo avrebbe logorato. Finendo per ingigantire le paure che lo attanagliavano. Ora l’Fbi sta passando al setaccio la vita del maggiore-medico, 39 anni, di origini palestinesi, in attesa che le sue condizioni di salute migliorino: attualmente è «stabile», dicono fonti ospedaliere, attaccato a un respiratore. Il bilancio del suo «folle gesto», come è stato definito: è tragico: 13 morti, e 31 feriti. È invece in condizioni stabili la poliziotta Kimberly Munley, l’“eroina” di Fort Hood: è stata lei a bloccare l’autore del massacro centrandolo con quattro proiettili. In realtà il nome Nidal Malik Hasan non è nuovo nome agli agenti che indagano. Sei mesi fa era stato intercettato un suo messaggio “sospetto”, apparso su Internet, sotto il nome di “NidalHasan”. Aveva paragonato la “fine” scelta dai kamikaze islamici al gesto di un militare americano che si era gettato su una bomba per salvare la vita di commilitoni. «Dire che questo soldato ha commesso suicidio è inappropriato. È più appropriato dire che è un coraggioso eroe che si è sacrificato per una più nobile causa». “NidalHasan” aveva poi aggiunto: «Se un attentatore suicida può uccidere 100 soldati nemici perché presi di sorpresa, questa può essere considerata una vittoria strategica. Lo stesso si può dire per i kamikaze giapponesi. Sono morti per uccidere i nemici del loro paese. Li puoi considerare pazzi, ma i loro atti non sono il tipo di suicidio condannato dall’islam». La polizia ha intanto ricostruito la sequenza della strage. La sparatoria è avvenuta poco prima delle 13.30 locali di giovedì al Soldier Rating and Processing Center della base, un importante punto di partenza per il trasferimento dei militari in teatri di guerra. Lo psichiatra ha aperto all’improvviso il fuoco, usando almeno due pistole contro le persone che si trovavano negli uffici. Gran parte delle vittime sono soldati Usa che si trovavano al centro amministrativo per sbrigare delle pratiche. La base ospita inoltre numerose strutture mediche, compresi centri per l’aiuto dei militari che soffrono di sindrome post-traumatica. Il presidente Barack Obama «sconvolto» ha proclamato un giorno di lutto e ha invitato a non «lanciarsi in conclusioni affrettate». Secondo un portavoce della Casa Bianca, il presidente potrebbe andare in Texas per partecipare alle cerimonie funebri.L'identikit. Chi è l’uomo che ha seminato morte nella base americana di Fort Hood? Malik Nadil Hassan, di origini palestinesi, ha 39 anni ed è di fede islamica. Chi lo conosce dice che «è sempre stato innamorato dell’esercito americano», al punto che – dopo il servizio di leva – aveva deciso di rimanerci. Erano quasi vent’anni che portava l’uniforme e nel maggio scorso era stato nominato maggiore dell’esercito. Ma – fino al giorno della strage – aveva sempre fatto il medico. Psichiatra, per la precisione: si è sempre occupato dei soldati colpiti da stress post-traumatico, e il suo compito è sempre stato quello di valutare la tenuta mentale dei ragazzi di leva di 18, di 19, di 20 anni in partenza per il fronte. Malik Nadil Hasan si è diplomato in biochimica al Virginia Tech, lo stesso istituto universitario divenuto tristemente famoso nel 2007 per l’omonima strage messa a segno dallo studente di origine sud coreana Cho Seung-Hui (33 morti). Dopo la laurea Hasan ha lavorato per l’ospedale militare Walter Reed Medical Center ed è successivamente rimasto sotto le armi, fino a prendere stabilmente incarico presso la più grande base militare d’America, quella di Fort Hood. Secondo quanto riferito da una parlamentare del Texas, la senatrice Kay Bailey Hutchinson, il motivo scatenante del massacro potrebbe essere questo: il maggiore Hasan stava per partire per l’Afghanistan ed «era molto nervoso» all’idea di partire. Un filo rosso lega l’esplosione di follia di Fort Hood agli orrori della guerra che Nidal aveva visto negli occhi e nei racconti dei feriti nell’ospedale militare Walter Reed alle porte della capitale dove aveva fatto l’internato da psichiatra e dove poi aveva lavorato per otto anni prima del trasferimento a Fort Hood l’estate scorsa.
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