Un padre, all’ospedale Abu Yousef al-Najjar di Rafah, stringe tra le braccia il figlio morto nei bombardamenti - Reuters
«Le loro case sono state distrutte, le loro strade minate, i loro quartieri bombardati. Sono in movimento da mesi, sfidando bombe, malattie e fame. Dove dovrebbero andare?». La domanda retorica di Martin Griffiths, responsabile per gli Affari umanitari dell’Onu, ha il merito di inquadrare la situazione di quasi un milione e 500mila persone sfollate a Rafah nell’estremo sud della Striscia di Gaza.
Difficile che dal cilindro del premier israeliano Benjamin Netanyahu – che avrebbe annunciato al gabinetto di guerra la fine delle operazioni a Rafah entro il 10 marzo, quando comincerà il Ramadan islamico – sbuchi una risposta. Anche perché dovrebbe sfidare le leggi dello spazio e del tempo: gli sfollati di Rafah hanno a ovest il Mediterraneo con le navi da guerra israeliane, a sud la barriera spinata del confine egiziano con i carri armati del Cairo a scongiurare un’invasione, a est e a nord le Forze di difesa. Molti hanno lasciato Gaza City tra ottobre e novembre, si sono fermati nelle scuole e nei rifugi dell’Unrwa (l’agenzia Onu per i palestinesi), sono finiti a Khan Yunis e poi gli è stato ancora chiesto di sloggiare fino a ritrovarsi sotto tende di plastica o all’aperto, senza null’altro che lutti, miseria, malanni e bocche da sfamare, spesso piccole e inquiete. Oltretutto, non sposti quasi un milione e mezzo di persone in giorni o in settimane, tanto meno se sofferenti, malnutrite e appiedate, in un territorio che fuori da Rafah non ha più strade percorribili con veicoli diversi dai blindati.
L’annuncio di Netanyahu ha sollevato un polverone di allarmi nella comunità internazionale, dagli Stati Uniti alle agenzie umanitarie. «Sarebbe una catastrofe annunciata» ha scritto la ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock. L’Arabia Saudita ha condannato «con forza» il progetto e ha chiesto una riunione urgente del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Identica richiesta è arrivata da Hamas, che appellandosi alle Nazioni Unite si è arrogato il ruolo di entità statuale. Mentre l’Egitto ha avvertito che un’operazione su Rafah metterebbe a rischio il trattato di pace del 1979. Finora i morti, secondo Hamas, sarebbero almeno 28.064, di cui 117 nell’ultima giornata, e 67.611 i feriti. L’altra notte almeno 44 persone sono rimaste uccise nei bombardamenti su Rafah, che non sono mai cessati ma che potrebbero intensificarsi nei prossimi giorni se davvero Israele intendesse far avanzare le truppe di terra. L’esercito ha informato che un raid ha ucciso il capo dell’intelligence della polizia di Hamas, Ahmed al-Yaakobi, il suo vice Iman a-Rantisi e il loro delegato alla distribuzione degli aiuti, Ibrahim Shatat.
I combattimenti proseguono a Khan Yunis, poco più a nord, anche nelle immediate vicinanze dell’ospedale Nasser, uno dei più grandi della Striscia, in cui resterebbero 300 operatori sanitari, 450 pazienti e 10mila profughi. A Gaza City, i militari hanno detto di aver scoperto un quartier generale di Hamas sotto un edificio dell’Unrwa. Secondo Times of Israel, di sarebbe trattato di una centrale di intelligence elettronica, cruciale per la gestione delle comunicazioni che operava protetta grazie alla collocazione fra una scuola e l’Agenzia Onu. Quest’ultima ha risposto di avere lasciato l’edificio in questione a ottobre e di non avere idea della presenza dell’infrastruttura. Mentre le operazioni continuano, i media sostengono che il gabinetto di guerra vorrebbe ancora contrattare con Hamas il rilascio dei 136 ostaggi.