giovedì 21 gennaio 2010
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«Siamo stanchi, abbiamo fame, abbiamo sete e nessuno ci aiuta. Fate qualcosa». Ma per dirlo, i diseredati della tendopoli di Carrefour hanno scelto un’icona assai macabra: il cadavere di un uomo avvolto in una coperta e sistemato su un tavolaccio che sbarra parte della strada e costringe chi vi si avventura a passarvi di fianco. Inutile nasconderselo: vedere l’82ma divisione aviotrasportata americana che circonda e pattuglia il disabitato palazzo presidenziale di Port-au-Prince – quello con la cupola bianca scivolata su un fianco – mentre sugli Champs de Mars antistanti si assiepano sull’erba almeno duecentomila persone in una tragica promiscuità che rende impensabile una qualunque forma di igiene mette una sorda rabbia perfino a chi per professione non dovrebbe mai mescolare i fatti con i sentimenti. E anche quella lunga teoria di haitiani che disegna un serpente infinito davanti all’ambasciata americana in attesa di un visto sotto lo sguardo severo dei marines ci obbliga a porci la medesima domanda: ma cosa sono venuti a fare gli americani ad Haiti? Domanda che – dopo un attimo di smarrimento dovuto a una forte scossa di primo mattino – abbiamo girato alla Minustah, la sede della missione delle Nazioni Unite, un vasto compound dove c’è perfino uno spaccio che vende cibo commestibile, bibite, caffè (ma solo ai pochi fortunati che vi hanno accesso: personale Onu, diplomatici, giornalisti) e dove ad ogni ora vedi un vorticoso carosello di fuoristrada con i bianchi colori del Palazzo di Vetro e la scritta «UN» sulla fiancata e una babele di nazioni con i propri contingenti, giordani, nepalesi, malgasci, turchi, e su tutti i brasiliani, che hanno titolo e giurisdizione qui ad Haiti. Ci facciamo queste domande perché troppe cose stridono, troppe luci e ombre: come accomunare il giornalista-neurochirurgo Sanjay Gupta, rimasto da solo una notte in una tenda a curare 25 feriti, al personale medico dell’Onu che evacuava da quella stessa tenda per ragioni di sicurezza? Come mettere insieme quelle avvilenti immagini di elicotteri che sorvolano la città e lasciano cadere balle di aiuti alimentari provocando inevitabili tafferugli, feriti, gente rabbiosa e frustrata con la silenziosa ma tenace opera capillare dei volontari che giungono via terra da Santo Domingo e portano medicine, macchinari, attrezzature sanitarie? E diciamo “via terra” perché accade che l’aeroporto, controllato dai militari americani, per ben tre volte neghi – le ragioni non le conosciamo dunque il giudizio rimane sospeso – l’atterraggio a un aereo-cargo di Medici senza frontiere (Msf) con 12 tonnellate di equipaggiamenti medici, obbligandolo a scendere a Santo Domingo. «Cinque nostri pazienti sono morti nell’ospedale allestito a Martissant per la mancanza del materiale medico-chirurgo che era contenuto nel cargo a cui è stato impedito di atterrare – dice Loris de Filippi, coordinatore di Msf per l’emergenza a Haiti –. Abbiamo terminato alcune apparecchiature chirurgiche necessarie e siamo stati costretti a comprare una sega al mercato per continuare le amputazioni».Non è tutto. Gli oltre 300 accampamenti improvvisati sparsi per la capitale haitiana raccolgono ad oggi circa 370.000 persone che vivono in rifugi di fortuna, senza accesso a scorte di acqua. «Lanciare aiuti dall’alto – dice Raymond Joseph, ambasciatore haitiano a Washington – è avvilente. Solo i più forti riescono a impadronirsene. Invece dovrebbero essere allestite aree dove gli elicotteri possano atterrare. Peraltro gli aiuti sono lì, all’aeroporto: facciamoli uscire». «Ma il vero nodo – sottolinea il presidente di Haiti René Preval – è il coordinamento: l’aiuto arriva e noi non siamo preparati a riceverlo. Quando giungono gli aiuti, ci chiediamo dove sono i camion per trasportarli, dove sono i depositi».La domanda vera infatti è questa: se gli aiuti ci sono, se uno sforzo gigantesco – anche e soprattutto dagli Stati Uniti – è stato compiuto, come mai arrivano con il contagocce e in modo disorganico? Ci sono due risposte, una tecnica e una politica. La prima la possiamo intuire, manca il coordinamento, manca un’autorità che diriga queste operazioni, anche se virtualmente l’onere se l’è assunto Washington. Bertolaso sta arrivando qui per questo: per suggerire, non comandare, per regalare l’esperienza italiana. La seconda ragione ce la spiega il diplomatico Arturo Valenzuela, coordinatore per l’Onu della regione caraibica: «Vuole la verità? La verità è che si esita a costruire delle vere e proprie tendopoli. E sa perché? Perché dopo gli haitiani non se ne vanno più, si abituano a un regime di assistenza permanente e ci rimangono a vita». Vorremmo non aver sentito. E allora limitiamoci alle notizie buone. Secondo l’Onu dal giorno del sisma sono state estratte vive 121 persone dalle squadre di soccorso internazionali. Il Pam (il Programma alimentare mondiale) riferisce che martedì è riuscito a distribuire 250.000 razioni di cibo; troppo poche per i 3 milioni di sopravvissuti: il prossimo mese occorreranno 100 milioni di razioni di cibo e ce ne sono solo 16 milioni. E non c’è solo il problema degli aiuti, ma anche quello dei saccheggi e dell’aumento della criminalità, come dice Preval, che ha lanciato un forte appello al popolo di Port-au-Prince «affinché si organizzi contro il dilagare della criminalità e dello sciacallaggio».Giusto ieri gli Stati Uniti hanno deciso di inviare altri 4.000 soldati, che si aggiungeranno ai tredicimila già presenti sull’isola. Il che ci lascia intuire quale sarà il grande problema del post-terremoto: come ridisegnare una nazione geograficamente occidentale, dove però tutto è estremo come negli angoli più bui del terzo mondo, dalla povertà alle malattie, dalla sottoalimentazione alla criminalità, dall’assenza dello Stato a quella di istruzione. In altre parole, una piccola Somalia nei Caraibi, che nei sogni inquieti della Casa Bianca rischia di diventare una polveriera e una base per il terrorismo che vuole sbarcare in America.Cala la sera dell’ottavo giorno su Haiti. A qualche angolo di strada bruciano ancora dei cadaveri, gli ultimi, si spera. E scende la notte, con quel buio come inchiostro, che nasconde il febbricitante formicaio di un Paese allo stremo che prima ancora di pensare a cosa farà domani si domanda se stanotte la terra tremerà ancora e per quanto.
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