giovedì 4 novembre 2010
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Calano a Washington con la loro paccottiglia folcloristica fatta di improbabili riti di giuramento sulla Costituzione, magliette di Obama con i baffetti da Hitler e raduni a base di birra e populismo. Si sentono nuovi, forti e lontani dall’establishment. Sono anti-tasse e anti-Stato. Ma nello Stato, nella macchina che decide della vita di oltre 300 milioni di persone, ora ci sono anche loro, i Tea Party. Ed è ora che dovranno dimostrare di non essere solo un movimento mediatico, di poter anzi fare la differenza nelle stanze che contano e che finora hanno ricoperto d’insulti.Vince il Tea Party in queste elezioni di medio termine. Vincono i Marco Rubio in Florida e i Rand Paul in Kentucky. Non vince, semmai pareggia, ed è paradossale, colei che dei Tea Party è una leader, quella Sarah Palin pronta a usare il movimento come trampolino per le presidenziali del 2012. Per «Sarah Barracuda» il voto di ieri è una «mixed bag», un risultato dal quale emergono luci e ombre. Perché se è vero che l’ex governatore dell’Alaska ha appoggiato molti dei candidati poi eletti in Congresso, non poche sono le sconfitte, messe ovviamente ieri in minor evidenza da un Tea Party ormai proiettato nel futuro.La disfatta più illogica è quella che ancora non si è materializzata: proprio in Alaska il suo Joe Miller, con il 70% delle schede scrutinate, è ormai dietro di quattro punti contro Lisa Murkowski, la repubblicana che ha sfidato il potere di Sarah nel suo stesso Stato correndo per il Senato come indipendente. Altri risultati sono invece ormai acquisiti. Ebbene, al Senato saranno pure sei i candidati vincenti sostenuti dal Tea Party e dalla Palin – oltre a Rubio e Paul, McCain, Boozman, Toomey ed Ayotte – , ma per altri quattro il sogno è finito. Non ce l’hanno fatta Carly Fiorina in California, né John Raese in West Virginia. In Nevada, la sconfitta di Sharron Angle ha regalato ad Obama almeno un motivo per cantar vittoria, con l’affermazione del capogruppo democratico in Senato Harry Reid. E poi Christine O’Donnell in Delaware, soprannome «la strega», ultrà anti-gay e anti-masturbazione sbaragliata dal democratico Christopher Coons.Anche alla Camera oltre alle molte vittorie (almeno sedici i «paliniani» eletti), non sono mancate le sconfitte (per ora otto). E, passando ai governatori, se è vero che sono stati ben sei i vincenti appoggiati dalla Palin e più in generale dai Tea Party, va sottolineato che molte di queste vittorie erano già date per scontate. È il caso di Mary Fallin in Oklahoma, Terry Branstad in Iowa, Butch Otter in Idaho. Sconfitti, invece, Tom Emmer in Minnesota e Tom Tancredo in Colorado.L’euforia generale, comunque, ieri era salva. A centinaia i sostenitori del Tea Party sono calati a Washington. «Nessuno poteva immaginare una valanga di questo tipo in così poco tempo – esultava una giovane del movimento – Dopo oggi, cambia tutto». Vero. Difficile capire, semmai, come. I più inquieti, dietro il trionfo che ha strappato la Camera ai democratici, sono i repubblicani. Diversi loro candidati alle primarie erano stati sconfitti proprio dai rappresentanti del Tea Party. Alcuni di essi, però, assolutamente impresentabili per la middle class. Tanto che c’è chi sostiene che se da un lato il Tea Party ha regalato all’opposizione quell’entusiasmo che mancava dall’ascesa di Obama alla Casa Bianca, proprio senza alcuni dei candidati sostenuti da Palin e compagni il Grand old party (Gop) avrebbe potuto sfondare anche in Senato, dove la maggioranza è stata mancata per qualche seggio.Così, all’indomani del voto, il Gop e il Tea Party si guardano ancora come venissero da due mondi opposti, e da mondi opposti faranno opposizione e lanceranno la loro sfida per la corsa che conta davvero, quella per le presidenziali del 2012. Il problema maggiore per il nuovo movimento è capire come inquadrare il suo potenziale politico senza spaventare il centro e gli indipendenti. Sarà un caso, ma l’astro nascente dei Tea Party, quel Rubio che in Florida ha raccolto ben 2,5 milioni di voti, sembra già si stia defilando e si è guardato bene, negli ultimi comizi, dal farsi ritrarre vicino alla Palin. Manco fosse solo Sarah Barracuda, a questo punto, l’incognita principale di un movimento che ora dovrà accantonare gli slogan più retrivi e passare dalle proteste alle (ben più difficili) proposte.
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