venerdì 1 ottobre 2010
La dissidente, icona della lotta per la democrazia, ha trascorso quindici degli ultimi 21 anni da reclusa. E oggi non è in condizione di nuocere politicamente al governo dei militari.
- Suu Kyi, la fragilità che spaventa i generali di Riccardo Redaelli
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È solo l’ennesima “piroetta” di un regime che si appresta a celebrare quelle che l’opposizione ha bollato come «elezioni farsa»? Oppure, – questa volta – potrebbe davvero finire la prigionia, lunga quindici anni, della dissidente birmana Aung San Suu Kyi? Ieri, a riaprire la partita, è stato l’annuncio proveniente da fonti ufficiali birmane. La giunta militare del Myanmar libererà il premio Nobel per la pace, vincitrice delle ultime elezioni del 1990 e per questo ostinatamente perseguitata dai militari. Quando? La data è tutt’altro che casuale: il 13 novembre, vale a dire una settimana dopo le prime elezioni degli ultimi vent’anni, in programma il 7. Dopo aver neutralizzato l’opposizione e la sua stessa leader – che come «criminale condannata» non può candidarsi – e dopo aver messo in cassaforte il voto elettorale, il regime potrebbe quindi cancellare la pena che l’icona della lotta per la democrazia sta attualmente scontando: 18 mesi ai domiciliari per aver incontrato un cittadino americano che era entrato illegalmente nella sua residenza. «Novembre sarà un mese impegnativo per noi con le elezioni e la liberazione di San Suu Kyi», ha riferito un funzionario dell’esecutivo.Si è detto scettico Jared Ginser, uno degli avvocati di Aun San Suu Kyi: «Non abbiamo ancora conferme su questo annuncio e ci crederò solo quando lo vedrò. Il regime ha più volte annunciato la liberazione di San Suu Kyi in questi ultimi sette anni, anche indicando delle date precise, annunci che poi si sono sempre rivelati falsi. Quindi, aspettiamo a vedere cosa succede». «E aggiungo – dice Genser – che se anche fosse liberata, poco cambierebbe in quel Paese, che è totalmente controllato dai militari e dove non esiste alcuno spazio democratico. Liberare lei sarebbe certamente una bellissima notizia per lei e per la sua famiglia ma con la situazione attuale ben poco cambierebbe per il popolo birmano».Resta il “buco nero” del voto, poco più che una «farsa». Accuratamente preparata dal regime. La Commissione elettorale del Paese – come scrive AsiaNews – ha bloccato il voto in alcune aree dominate dalle minoranze etniche. Ha dissolto cinque partiti su 42, ammettendone a una corsa elettorale addomesticata solo 37. Il principale partito di opposizione, la Lega nazionale per la democrazia (Nld) è stato praticamente smantellato. Per Tint Swe, membro del Consiglio dei ministri del National Coalition Government of the Union of Burma, costituito da rifugiati del Myanmar dopo le elezioni del 1990, le elezioni in realtà sono ristrette a «solo due contendenti: lo Usdp, che presenta 1163 candidati e il National Unity Party (Nup), con 980 candidati. Il primo è guidato da U Thein Sein, l’attuale Primo ministro, mentre il Nup è il nuovo nome del partito legato al primo dittatore birmano, il generale Ne Win, il quale ha vinto solo dieci seggi alle elezioni del 1990». In questo scenario è spenta qualsiasi speranza di cambiamento. «Quanti sono impazienti di lasciarsi alle spalle il 2010 si troveranno di fronte un Paese, «con un nuovo Parlamento composto al 25% da ufficiali dell’esercito, per oltre il 50% da candidati dello Uspd, poco meno del 25% per i rappresentanti del Nup e pochissimi fortunati provenienti da altri partiti. E tutti quanti saranno guidati dal generalissimo Than Shwe con la collaborazione di Maung Aye. Questo è il solo cambiamento che il mondo si potrà aspettare».
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