sabato 10 giugno 2023
La continue missioni a Washington del premier e l'asse privilegiato con Joe Biden non stanno minimamente incidendo sulla crisi economica che l'isola attraversa
Rishi Sunak e Joe Biden a Washington

Rishi Sunak e Joe Biden a Washington - REUTERS

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Regno Unito e Stati Uniti sono ancora “amici” per la pelle? È la domanda che si pongono in molti all’indomani della visita ufficiale del premier britannico Rishi Sunak negli Stati Uniti. La due giorni Oltreoceano del titolare del governo si è conclusa, giovedì, con una conferenza stampa tenuta alla Casa Bianca insieme al presidente americano Joe Biden. I due leader non hanno lesinato sorrisi e smancerie. Nel corso di un siparietto su Winston Churchill che, ospite di Franklin Delano Roosevelt nel 1941, si dice abbia svegliato all’alba con il suo baccano l’intera famiglia presidenziale, Sunak ha assicurato: “Non si preoccupi, presidente, non mi vedrà mai fare scene del genere”.

Si fa presto a dire che l’attuale inquilino di Downing Street, nel bene e nel male, non è l’uomo che i russi chiamavano “British Bulldog”. Neppure il Regno Unito, ovvio, è oggi lo stesso Paese di ottant’anni fa. Ciò che costa più fatica ammettere è che la “special relationship” tra Londra e Washington, risalente proprio ai tempi di Churchill e della Seconda guerra mondiale, è ormai poco più che un ricordo. L’intesa portata a casa da Sunak dalla missione negli Stati Uniti, la Dichiarazione Atlantica, è di portata “modesta”. Quasi un premio di consolazione. Certo, rafforza la collaborazione in materia di difesa, nucleare e quantum computing. Prevede, dettaglio ancor più importante, anche un’azione congiunta nell’approvvigionamento dei minerali necessari alla produzione di auto elettriche, cellulari, turbine e fighter jet. Azione pensata a contenere la corsa a litio, cobalto e grafite della Cina.

Biden ha ripetuto che “nessun Paese è più vicino agli Stati Uniti del Regno Unito”. Ma il leader dei Tory non è riuscito a portare a casa molto altro. L’agognato accordo di libero scambio con cui sperava di compensare gli effetti della Brexit è ancora molto lontano. Tiepida è stata la reazione del presidente all’idea che la Nato, a settembre, possa avere un britannico come Ben Wallace, attuale ministro della Difesa, al comando. “E’ da vedere”, ha commentato ermetico. Vago è stato anche l’appoggio alla proposta di insediare a Londra un’agenzia internazionale che supervisioni le applicazioni di intelligenza artificiale. Sunak, che in autunno farà da padrone di casa a una conferenza internazionale sui criteri che dovranno regolare il settore, ha incassato appena il consenso a “lavorare insieme” al riguardo. Biden, certo, è un democratico che, dettaglio non secondario, non ha mai visto di buon occhio l’addio di Londra all’Unione Europea. Il suo recente pacchetto di sussidi verdi ha fatto inorridire i ministri d’Oltremanica. L’immagine del premier conservatore che si presenta a Washington quasi implorando, “giudicateci dai fatti”, trasuda l’urgenza di recuperare un alleato che possa aiutare il Paese a navigare, senza affondare, le acque agitate dalla tempesta perfetta causata prima dalla Brexit poi dalla pandemia e infine dalla guerra in Ucraina. In casa Tory lo sforzo titanico di Sunak è minimizzato. Il premier, dicono i più romantici, sta reinventando una vecchia alleanza, essenzialmente militare, per renderla “future-proof” a prova di futuro.

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