domenica 14 aprile 2024
I combattimenti, per gli equilibri di potere a Khartum, si stanno estendendo alle aree non toccate nei mesi scorsi
Un gruppo di donne rifugiate nel campo di Adré, in Ciad

Un gruppo di donne rifugiate nel campo di Adré, in Ciad - Ansa

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Nessuna prospettiva di pace per il Sudan, dopo un anno di morte e silenzio e buio mediatico. Fallite, infatti, tutte le mediazioni per mettere fine alla guerra, scoppiata il 15 aprile dell’anno scorso tra le truppe fedeli al presidente de facto Abdel-Fattah al-Burhan e il suo ex vice Mohamed Hamdan Dagalo, detto “Hemetti”, che comanda le Forze di supporto rapido (Rsf). Gli scontri infuriano ormai, oltre che a Khartum, in diversi Stati federati, dal Darfur al Kordofan e da al-Gazira e Sennar. Per la prima volta dall’inizio del conflitto, i droni hanno colpito nei giorni scorsi centri urbani prima risparmiati, come Atbara, a 300 chilometri a nord della capitale Khartum, e Gedaref, nell’est. Secondo un bilancio, al ribasso, stilato da Acled (Armed Conflict Location & Event Data Project), si contano oltre 14.790 morti in un anno. Nell’analisi condotta dalla stessa Ong per conto di Save the Children si rileva anche che oltre dieci milioni di bambini sudanesi, praticamente uno su due, si trovano attualmente (o sono stati) a meno di cinque chilometri dalla prima linea del conflitto, esposti a sparatorie, bombardamenti, attacchi aerei e altre violenze.
Il conflitto tra i due signori della guerra ha creato una situazione umanitaria devastante.

L’Onu parla di migliaia di persone che continuano a fuggire dal Paese ogni giorno «come se l’emergenza fosse iniziata ieri». Circa 1,8 milioni di persone sono disseminati tra Egitto, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea, Libia, Ciad, Repubblica Centrafricana, mentre altri 6,7 milioni sono diventati sfollati interni. Secondo l’Onu, circa 25 milioni di persone – più della metà della popolazione sudanese – ha bisogno di aiuti. Di questi, quasi 18 milioni si trovano in condizioni di grave «insicurezza alimentare». Quanto basta per essere definita «una delle crisi umanitarie e di sfollamento più vaste e impegnative al mondo» dalla portavoce dell’Acnur-Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati. «Gli attacchi ai civili e le violenze sessuali e di genere legate al conflitto – ha precisato Olga Sarrado Mur in un recente incontro con la stampa a Ginevra – continuano senza sosta», aggiungendo che «il conflitto in corso ha sconvolto la vita delle persone, riempiendole di paura e perdite». «Con il protrarsi del conflitto e l’aggravarsi della mancanza di assistenza e di opportunità – ha detto ancora la portavoce –, un numero sempre maggiore di persone sarà costretto a fuggire dal Sudan verso i Paesi limitrofi o a spostarsi ulteriormente, rischiando la vita con l’intraprendere lunghi e pericolosi viaggi per mettersi in salvo».

Sono cinque anni che il Sudan è in balia all’instabilità politica. L’11 aprile 2019, dopo 4 mesi di massicce proteste popolari, i militari pongono fine ai 30 anni di potere del generale Omar el-Bashir. Segue un fragile accordo di condivisione del potere tra i rappresentanti civili della rivolta e l’esercito attraverso un “Consiglio sovrano” di transizione guidato da al-Burhan.
Nell’ottobre 2021, a poche settimane dalla scadenza della transizione e il passaggio del potere a un civile, Burhan scioglie il Consiglio e dichiara lo stato di emergenza facendo arrestare i componenti del governo. All’attuale situazione bellica del Paese si aggiunge la persistente tensione relativa alla Grande diga del rinascimento etiope (Gerd) dopo il fallimento a marzo dell’ultimo round di colloqui per raggiungere un accordo sui flussi idrici tra Etiopia, Sudan ed Egitto. A settembre, Addis Abeba ha completato il processo di riempimento della diga costruita sul Nilo Azzurro, il principale affluente delle acque del Nilo. Ma Egitto e Sudan, che dipendono dall’acqua degli altipiani etiopi, temono per la loro sicurezza. Così le premesse per un conflitto regionale nel Corno d’Africa peggiorano le prospettive di pace e stabilità nel Paese.

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