mercoledì 7 maggio 2014
COMMENTA E CONDIVIDI

“Certo che ho votato ancora per l’African national congress (Anc), è il mio partito, quello per cui sono stato in prigione con Mandela. Certo, so che non è stato realizzato tutto ciò che era stato promesso, ma siamo partiti da zero e in vent’anni abbiamo comunque ottenuto dei risultati”. Nel giorno in cui il Sudafrica torna alle elezioni legislative e provinciali per la quinta volta dalla fine dell’apartheid, con un’intera generazione di “nati liberi” per la prima volta al voto, Kgotso Ntsoelengoe, 50 anni, mostra di avere ancora fiducia nell’organizzazione oggi guidata dal presidente Jacob Zuma, in cerca di un nuovo mandato quinquennale.

La vittoria dell’Anc non è in dubbio: dovrebbe superare il 60 per cento anche questa volta, anche se è data un po’ in calo rispetto al 2009. Colpa del malcontento generale in un Paese in cui la disoccupazione riguarda un quarto della popolazione e in cui servizi come l’energia elettrica o l’approvvigionamento di acqua potabile non sono ancora alla portata di tutti. “Magari Mandela avesse fatto un altro mandato da presidente, invece di passare il timone a Thabo Mbeki nel ’99 – continua Kgotso – Leader come Madiba forse non ne avremo più”.Incontriamo Kgotso a Robben Island, l’isola-prigione a un’ora di traghetto da Città del Capo in cui lo stesso Mandela fu rinchiuso dal 1964 al 1982. “Io fui imprigionato nel 1984 e restai dentro fino al 1991 – ricorda -. Avevo vent’anni e facevo già parte dell’Anc. All’ingresso sono stato interrogato e torturato: il regime voleva da noi prigionieri informazioni preziose sulle attività e sulle strategie dell’Anc. Appena arrivato a Robben Island sono diventato un numero, e tale sono rimasto fino alla mia liberazione”.“Quando sono uscito da qui – continua - , la prima cosa che ho voluto fare insieme ai miei compagni è stata andare sulla Table mountain”, la montagna dalla cima piatta che domina la baia di Città del Capo ben visibile dall’isola. “L’avevamo guardata e desiderata per così tanto tempo da qui che dovevamo raggiungerla una volta fuori. Da lì in cima, Robben Island sembrava davvero minuscola”.

Uscito da Robben Island, Kgotso promette a se stesso che non ci avrebbe mai più messo piede. Nel 2003, però, gli viene chiesto di tornare a lavorare sull’isola, diventata nel 1999 patrimonio dell’umanità dell’Unesco, per raccontare ai visitatori com’era la vita dei prigionieri politici ai tempi dell’apartheid.“Nella sezione B era rinchiusa la leadership dell’Anc – ci spiega mostrandoci la cella di Mandela, grande tre metri per due, la numero 5 di 40 -. Il più giovane prigioniero qui aveva appena 15 anni ed è uscito quando ne aveva 27: oggi è un importante giudice. L’acqua fresca veniva portata sull’isola una volta a settimana, mentre usavamo l’acqua piovana per lavarci i vestiti e per innaffiare le piante. La prigione poteva detenere un massimo di 1.250 persone, tra prigionieri politici e detenuti comuni”.

“Alle 6 – ricorda ancora – si aprivano le porte e mezzora dopo si faceva colazione. Non c’era una mensa: ognuno prendeva il suo vassoio con un po’ di cibo e tornava in cella per mangiare. Poi si usciva per lavorare: si raccoglievano le alghe o si spaccavano le pietre di una cava, attività che danneggiava gli occhi, come successo a Mandela, che perse qui la capacità di lacrimare. Alle 15:30 c’era il pranzo, alle 16 la conta dei detenuti, poi si richiudevano le porte. E alle 23 si spegnevano le luci”.Ma come trascorrevano il tempo i prigionieri? “Studiavamo molto, anche per corrispondenza. La cava, poi, era definita scherzosamente l’università di Robben Island. Il 70% dei detenuti era costituito da professionisti (avvocati, medici, insegnanti), mentre il 30% era analfabeta: ebbene, i primi insegnavano ai secondi, secondo il motto “Each one teach one” (Ognuno insegna ad uno). Al pomeriggio iniziavano infinite e appassionate discussioni di politica. Parlavamo del passato e del presente, ma soprattutto del futuro. Poi magari si giocava a dominio o a scacchi, ma il vero sport nazionale, qui, era il calcio: c’erano ben 14 squadre che si sfidavano in un torneo”.“Molti – conclude Kgotso - purtroppo non sono sopravvissuti alla prigionia: sono morti in 139. Alcuni si ammalavano di polmonite, altri di tubercolosi. Anche Mandela, quando venne spostato nel carcere di Pollsmore, nel 1982, aveva la tubercolosi, ma la sua malattia venne tenuta segreta, non si voleva che si sapesse. E’ agli anni di Robben Island che è dedicato il libro di Mandela “Long walk to freedom”. E raggiunta quella libertà dobbiamo saperla difendere. Anche oggi, con il voto, la nostra arma più preziosa”.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: