mercoledì 18 agosto 2010
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«Fossi stato ferito in modo più lieve, sarei di certo ripartito... Ora sono costretto a bere continuamente acqua, e questo mi impedisce di andare materialmente nei luoghi disagiati della terra, ma le mie missioni di pace le continuo da qui». Antonio Altavilla, giovane carabiniere in congedo per gravissimi problemi di salute, padre di due ragazzine, fu considerato la "ventesima vittima" di Nasiriyah, nel senso che tutti, compresi i medici americani che per primi misero insieme i suoi pezzi dopo la strage del 2003, lo avevano già contato con i 19 morti nell’attentato. Invece Altavilla ce la fece, e da allora non ha altro desiderio che continuare a spendere le proprie forze per chi ne ha meno di lui, esattamente come quando partiva con l’Arma per l’Albania, il Kosovo, la Bosnia, l’Iraq... «Questa è la mia vita - spiega - non posso smettere. Se hai fatto tante missioni pericolose, o sei un pazzo o hai una passione. Io ho sempre scelto serenamente di mettermi a disposizione degli altri e continuo a farlo da congedato, senza andare dall’altra parte del mondo: anche solo con una parola buona o un gesto sapesse quante persone si riescono ad aiutare! Anche qui in Puglia dove abito, e in tutta Italia, incontro gente che è sola e vede solo il buio davanti a sé, persone che hanno problemi grandi come macigni: o qualcuno le aiuta o succede quello che non dovrebbe succedere... Con una storia come la mia diventi per forza un punto di riferimento». Altavilla uscì dall’esplosione con il ventre squarciato, un rene e il colon asportati, lesioni al diaframma, ai polmoni, al fegato e un grave trauma cranico. Mentre era in coma, fu trasportato in Germania e da lì in Italia, al Celio. Solo nel 2004 tornò a casa, a Bisceglie, e da allora ha due pesi sul cuore: i 19 corpi carbonizzati che vide prima di perdere i sensi, e il bimbo iracheno di 3 anni che morì nello stesso attentato: «Anche per lui so che devo continuare a dare una mano». A Triggiano (Bari) gli è stata intitolata una sezione dell’Associazione Carabinieri («sono l’unico ad avere un onore simile in vita»), con la quale ha organizzato massicci aiuti per i terremotati dell’Aquila, ma anche un progetto di adozione collettiva a distanza per bambini africani. O ancora un rigoroso servizio d’ordine davanti alle scuole del territorio, «quando avvengono cose brutte ci si chiede perché nessuno vegliava sui ragazzi, così noi preferiamo fare prevenzione». Nasiriyah 7 anni fa è stata uno spartiacque («ho 38 anni più 7», risponde se gli si chiede l’età), ma la missione resta la stessa.«È vero, i motivi per cui parto adesso restano gli stessi», gli fa eco da Siena il brigadiere Cosimo Visconti, anche in lui in congedo dal dramma di Nasiriyah. I 3.000 chili di tritolo gli esplosero a 12 metri di distanza, «gli americani mi portarono subito a Baghdad, dove intervennero all’addome e mi riattaccarono un braccio, poi finii anch’io in Germania. Appena ripresa conoscenza, i primi passi che mossi, in carrozzella, furono per andare a visitare Altavilla, che era ancora in coma, ma appena vidi com’era conciato ebbi una violenta crisi di panico. Ci rivedemmo solo in Italia». Un destino comune, dunque, anche nella scelta di restare in trincea al fianco dei bisognosi: «Sono stato più volte in Bolivia con l’associazione "Gli amici di Betlemme". Lì padre Tarcisio e i suoi francescani da 30 anni si occupano di gente che vive con un euro al giorno, in case di sterco. Le condizioni sono disumane, ma tutti gli anni apportiamo un piccolo miglioramento: l’anno scorso i generatori di corrente, quest’anno un consultorio per i bimbi malati e una scuola di musica cui padre Tarcisio tiene tantissimo. Lo scriva, sono frati che danno la vita». Un esempio che ha profondamente colpito il militare: «Onestamente mi sono ricreduto... Prima non credevo, ora ho visto con i miei occhi come operano e ho deciso di continuare al loro fianco ciò che facevo con l’Arma. L’unica differenza è che prima avevo alle spalle una forte struttura istituzionale, ora solo la forza d’animo». Per il passato nessun odio, nessun rancore, «solo il desiderio di tramutare la violenza ricevuta in una forza positiva».
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