venerdì 21 dicembre 2018
Sonia Sotomayor, cresciuta poverissima nel Bronx, si racconta: «Vedendomi le persone provano speranza e fiducia, perché se io l’ho fatto potrebbero farlo anche loro»
Sonia Sotomayor, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti (Ansa)

Sonia Sotomayor, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti (Ansa)

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Portoricana, donna, cresciuta poverissima nel Bronx con un padre alcolizzato e una grave forma di diabete giovanile. Sonia Sotomayor è la prima ad ammettere che la sua nomina, quasi dieci anni fa, alla Corte Suprema americana da parte di Barack Obama, è una specie di miracolo. «Quando avevo dieci anni ho deciso che sarei diventata un avvocato – spiega la giudice cattolica – ma nel corso della mia carriera ho avuto molti momenti di dubbio, molte paure. La determinazione di mia nonna e di mia mamma e il desiderio di imparare mi hanno fatto superare innumerevoli difficoltà. Spero di poter trasmettere questa lezione a quanti più giovani possibile».

È per questo che ha scritto non una ma tre autobiografie: una versione per adulti, una per giovani e una per bambini?

Mi ha ispirato a scrivere la convinzione di poter dare speranza agli altri raccontando la mia storia. Volevo mostrare che è possibile vivere vite piene anche se abbiamo un passato difficile, origini umili, una disabilità. Sono cresciuta nei casoni popolari e poveri nel Bronx. Non c’erano avvocati nella mia famiglia e nessun avvocato nel mio quartiere. Non sapevo che cosa volesse dire essere un avvocato, se non dalle televisione. Ma la volontà di aiutare gli altri mi ha fatto venire voglia di difendere la giustizia.

Ha mai avuto paura della responsabilità del suo incarico?

Sì, certo, molte volte. E la paura l’ho superata ammettendola, non nascondendola. Riconoscere la propria paura ad alta voce offre l’opportunità di affrontarla. Durante il procedimento di approvazione della mia nomina alla Corte Suprema da parte del Senato avevo paura dei critici che dicevano che non ero abbastanza intelligente, non abbastanza preparata, e l’ho detto. Sono molto onesta in merito alle mie paure. Ma a volte anche se hai paura devi prendere una posizione.

Ha un motto, una frase preferita?

Sì, e la devo all’ex vicepresidente Joe Biden, che a sua volta l’ha ricevuta da sua madre. «Bisogna misurare il carattere di una persona non contando quante volte è caduta, ma quante volte si è rialzata». È normale fallire, sbagliare, ma occorre trovare la forza di rialzarsi e riprovare.

Come si sente ad essere la prima giudice di origine latinoamericana della Corte Suprema?

Questa è sempre una domanda difficile. Perché non penso a me stessa come a un giudice latinoamericano. Penso a me stessa come a un giudice della Corte Suprema, che è anche di origine latinoamericana. Ma credo che quando le persone osservano la Corta Suprema e vi vedono persone diverse, provenienti da contesti diversi, provano una certa dose di speranza. Se io l’ho fatto, potrebbero farlo anche loro. Penso che quella sensazione di speranza sia ciò che le persone provano quando vedono persone come me, una latina. O il mio collega, Clarence Thomas, che è nero. O Ruth Bader Ginsburg e Elena Kagan, con me fra le prime donne a sedere al massimo organo giudiziario statunitense.

Si parla molto degli equilibri politici all’interno la Corte Suprema, di quanti giudici sono progressisti e quanti conservatori. Pensa che gli americani abbiano fiducia che la Corte Suprema non sia vittima di pregiudizi politici?

Sta a noi provarlo con ogni sentenza. Dobbiamo lavorare come istituzione per fare in modo che la gente abbia fede in noi e sia convinta che prendiamo decisioni non di parte. Questo vuol dire essere sempre aperti ai compromessi e lavorare insieme ai colleghi per prendere decisioni non liberal o conservatrici, ma per il bene della nazione.

Come farlo? Quanto le opinioni politiche o personali condizionano il processo decisionale di un giudice?

La gente deve capire che seguiamo la legge. E che ci sono principi di interpretazione della legge che si applicano a tutte le questioni. Quando un quesito arriva fino a noi è perché una legge non è mai stata applicata a una situazione specifica e noi siamo chiamati a farlo. Ma i precedenti ci aiutano a capire quali principi quella misura ha sostenuto in passato, ci danno una guida. Allora le decisioni non sono più una questione di opinione, non sono arbitrarie.

Molti analisti oggi sostengono che la società americana in questo momento, soprattutto dopo l’elezione di Donald Trump, sia più divisa che mai: fra democratici e repubblicani, Cittadini e immigrati. È d’accordo?

Sono un’osservatrice della politica e vedo che molti nel nostro Paese sono preoccupati per questa situazione. Credo che debba necessariamente essere così? No. Credo che la gente possa avere la speranza che di cambiare le cose? Sì. Se i cittadini capiscono che sono loro a fare le leggi, votando e facendo sentire la loro voce, possiamo cambiare questo stato di cose.

Che cosa può dire a chi oggi pensa che gli Stati Uniti, politicamente, abbiano preso una direzione sbagliata?

Fai sentire la tua voce, votando e impegnandoti civicamente nella società. Allora potrai imprimere una nuova direzione al Paese. Chiunque senta un senso di oppressione o di ingiustizia nella nostra società, indipendente-mente dallo scenario politico del momento, può fare qualcosa. In questo processo democratico di impegno sociale, però, è fondamentale avere la possibilità di ottenere una buona istruzione.

Promuovere un’istruzione di buona qualità per tutti è una delle cause civiche che la vedono maggiormente implicata. Perché?

Perché non avremo una società equa finché non avremo un accesso equo a un’istruzione di qualità a tutti i livelli. Ma negli Stati Uniti ci sono molti problemi strutturali che rendono difficile distribuire equamente le risorse a tutte le scuole del Paese. Ad esempio, poiché in molti Stati le scuole pubbliche sono finanziate dalle tasse locali sugli immobili, necessariamente i distretti più abbienti hanno scuole migliori. Sono ostacoli difficili da superare. Il primo passo per migliorare la situazione è che tutti, genitori e non, siamo coinvolti attivamente nella vita delle scuole e che le sosteniamo il più possibile.

«Sono cresciuta nei casoni popolari e poveri nel Bronx Non c’erano avvocati nella mia famiglia e nessun avvocato nel mio quartiere Ma la volontà di aiutare gli altri mi ha fatto venire voglia di difendere la giustizia»

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