mercoledì 30 dicembre 2009
Le iniziative che mobilitano la popolazione contro il pericolo di attentati provocano la reazione dei gruppi per le libertà civili e la difesa della privacy.
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Ci sono 400.000 nomi sulla lista Fbi dei "most wanted" per terrorismo. Un dossier imponente e che si aggiorna di continuo. Nell’elenco figurava anche Abdulmutallab, l’attentatore del volo Amsterdam-Detroit. Eppure l’aspirante kamikaze si è imbarcato ugualmente: come è potuto accadere? Secondo quanto riferito recentemente da una commissione del Senato americano, solo nei 12 mesi precedenti il marzo 2009, sulla base del "ragionevole sospetto", sono stati aggiunti ogni giorno alla lista ben 1.600 nomi, mentre altri 600, sempre con cadenza quotidiana, sono stati rimossi. È evidente che al momento di utilizzare l’elenco non ha fatto seguito altrettanto zelo. All’indomani dell’episodio è scattato intanto un giro di vite ai cancelli degli aeroporti. Il rischio è che, insieme alle doverose precauzioni, si accresca il clima di paura. Alimentato da una tendenza alla privatizzazione della sicurezza che può sconfinare nella delazione indiscriminata.IL CASO BRITANNICO: TELECAMERE AFFIDATE AI CITTADINI Con quattro milioni e duecentomila telecamere il Regno Unito è il Paese potenzialmente più sorvegliato al mondo. Ce n’è una ogni 14 abitanti e in nome della sicurezza ciascun suddito di Sua maestà viene ripreso in media 300 volte al giorno. Ora i cittadini britannici avranno l’occasione di "rifarsi" passando dall’altra parte dell’obiettivo: un progetto prevede infatti di assegnare loro direttamente il controllo delle videocamere, fino a un massimo di quattro per persona, con tanto di premio in denaro (mille sterline al mese) se la loro segnalazione si rivelerà utile. Basta registrarsi al sito "Internet Eyes" per ottenere la visione 24 ore su 24 dei filmati e partecipare a un sistema di prevenzione che è stato già paragonato a un videogioco. Lo scopo è scovare presunti criminali, dal ladruncolo al terrorista, e denunciarli alle autorità. Se l’osservatore noterà qualcosa di sospetto, gli basterà "catturare" il fermo immagine e inviarlo con un clic al proprietario della videocamera. In base ai crimini sventati, accumulerà dei punti, che potrebbero poi trasformarsi in denaro. Il sistema è gestito da una società privata fondata da tre giovani imprenditori britannici, due esperti di informatica e un ex ristoratore, che hanno studiato a lungo per aggirare – dicono – i cavilli della pur rigida e avanzata normativa britannica sulla privacy. «Abbiamo le carte in regola», hanno spiegato ai mezzi di informazione britannici che hanno cominciato a occuparsi della vicenda, scoprendo che non si tratta di una semplice provocazione. L’iniziativa prende spunto da un rapporto della polizia metropolitana di Londra, secondo cui viene risolto un crimine ogni mille telecamere presenti sul territorio. Una media considerata insufficiente, dal momento che solo il governo ha speso mezzo miliardo di sterline per installarle. Il ministero dell’Interno ha spiegato che le telecamere non sono efficaci perché non c’è abbastanza personale per tenerle d’occhio. Di qui l’idea di Internet Eyes, i cui clienti sono per il momento esercizi commerciali, società e privati cittadini. Gli iscritti al sito, cioè gli aspiranti osservatori, sono già a quota 10.000: di questi tempi mille sterline al mese fanno comodo a tutti; e l’iscrizione è gratuita. La partenza del programma è fissata per l’inizio del 2010, ma è già scattata una fase di sperimentazione a Stratford Upon-Avon, la città natale di William Shakespeare. Ma è già sorto un comitato dal nome inequivocabile: "No videocamere". Secondo il suo presidente, Charles Farrier, «il progetto rappresenta un sviluppo molto preoccupante. Siamo già il Paese più controllato. Ora c’è un’azienda privata che chiede a privati cittadini di spiarsi gli uni con gli altri». I creatori del sito ribattono che il sistema è al riparo da questi rischi, poiché all’osservatore non viene rivelato dove si trovano le telecamere. Ciò non toglie tuttavia che lo possa scoprire da solo. Il "giocatore" inoltre ha solo cinque "colpi" a sua disposizione: esaurite le segnalazioni, viene eliminato, ma solo fino al mese successivo. Secondo Tony Morgan, ideatore del sito, «questa potrebbe rivelarsi la migliore arma di prevenzione del crimine mai esistita». Farrier vede altri possibili abusi: «Cosa succederebbe se un razzista decidesse di mandare un allarme ogni volta che una persona di colore compare sullo schermo?». Sulla vicenda il garante per la privacy ha aperto un’inchiesta. IL CASO AMERICANO: INVITO A DENUNCIARE OGNI SOSPETTOTorna in voga negli Stati Uniti lo slogan più gettonato dopo l’11 settembre 2001: «If you see something, say something». Se vedi qualcosa, dillo. È sulla base di questo principio che la polizia di Los Angeles ha lanciato nelle scorse settimane il programma "iWatch". Letteralmente si traduce "io osservo". La segnalazione di un comune cittadino – è questo il senso, nelle intenzioni di chi lo ha creato – può essere decisiva per sventare un nuovo attacco all’America. Il progetto ruota intorno a un prontuario delle situazioni sospette e dei luoghi a rischio dove gli aspiranti 007 devono rivolgere la propria attenzione. Il tutto reclamizzato con una massiccia campagna su Internet e in televisione, consultabile on-line su un sito creato dalle autorità locali. Il prefisso "i",  minuscolo come si usa tra i frequentatori della Rete, sta per Internet, ammiccando così ai numerosi consumatori di prodotti elettronici. Una volta studiato il manuale, a disposizione del segnalatore ci sono un numero verde e ancora una pagina Web. Un metodo che sta sollevando perplessità fra gli esperti di antiterrorismo, mentre gli attivisti dei diritti civili, che lo vedono come un attacco finale alla privacy degli americani, hanno fatto partire il loro tam tam di protesta. Il programma infatti potrebbe essere presto esteso al resto del Paese. In una riunione a Denver, nel Colorado, i capi dei 63 maggiori Police Department hanno approvato il progetto, pur riservandosi di adottarlo solo in un secondo tempo. Del resto, hanno convenuto, il principio sui cui si basa è lo stesso affermato dopo gli attacchi al World Trade Center: "If you see something, say something", appunto. Fra le situazioni sospette, odori insoliti, personaggi che indossano abiti larghi o troppo pesanti per la stagione, oppure che acquistano materiale utile per costruire una bomba o che fanno domande sulla sicurezza di un edificio. Questi i principali luoghi a rischio: uffici pubblici, mezzi di trasporto, scuole e grandi assembramenti. Non la pensa così Mike German, ex agente antiterrorismo e consulente dell’Unione americana per le libertà civili: «Le situazioni elencate sono troppo generiche: temo che la gente agirà sulla base di suggestioni personali o dei classici stereotipi su come è fatto un terrorista», ha detto l’ex super poliziotto. Il programma secondo i critici è un moltiplicatore del sospetto e una sicura fonte di abusi e possibili malintesi. La stessa legge federale, nonostante il giro di vite scattato dopo le stragi, non ha mai raggiunto un tale livello di intrusione nella sfera privata dei cittadini. Ai sensi del Patriot Act, la controversa legge "speciale" varata nel 2001 e poi confermata, gli americani sono stati sorvegliati e spiati nelle loro comunicazioni, le loro abitudini sono state in alcuni casi passate al setaccio, ma ufficialmente le informazioni ottenute sono rimaste confinate nelle agenzie federali. In agguato ci sono anche pregiudizi razziali. Una conseguenza che la stessa polizia di Los Angeles non può escludere: «Se qualcuno farà rapporto sulla base della razza, noi non ne terremo conto e spiegheremo all’autore della segnalazione che quella non è una situazione sospetta», ha detto Joan McNamara, comandante del Dipartimento e ideatrice di "iWatch", la quale parla di «buon senso» e nega che il programma insegni «a spiare il proprio vicino di casa». Spiegazioni che non convincono i contrari. «Il metodo fa leva sulle pulsioni più basse – ha commentato un agente speciale dell’Fbi – senza portare benefici alla prevenzione».
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