Manifestazione interreligiosa a Dubai, in occasione della Cop28, per chiedere la salvaguardia del pianeta e la giustizia climatica - Ansa/Epa
«Eliminare i combustibili fossili». La maratona finale della Conferenza Onu sul clima (Cop28) è cominciata con un’improvvisa accelerata. All’avvio della settimana conclusiva, i 197 ministri-delegati di altrettante nazioni più l’Unione Europea (Ue) hanno preso di petto il punto più spinoso: lo stop a carbone, gas e petrolio, chiesto a gran voce dagli scienziati e sostenuto dalle Nazioni Unite, dalle principali organizzazioni umanitarie e dalla Santa Sede.
L’addio, con diversi distinguo, compare in tre versioni su quattro dell’articolo più importante – il 36 – della nuova bozza di documento finale, diffusa a sorpresa ieri. L’arrivo del testo è stato preceduto da una sfilza di prese per «azioni coraggiose». Incluso il presidente del summit, il sultano Ahmed al-Jaber, nonché amministratore delegato della compagnia petrolifera Adnoc, che ha chiesto al mondo di uscire dalla propria «confort zone». A tessere ea fila, mettendo nero su bianco i passi avanti raggiunti, è stato l’inviato danese Dan Jorgensen, con il supporto di Egitto e Canada, chiamati a coadiuvare la presidenza. Certo, si tratta ancora di proposte e il ventaglio di opzioni sugli idrocarburi è ampio, inclusa la cancellazione di ogni riferimento, come vorrebbero Arabia Saudita, Russia, Cina e un nutrito seguito di petro-potenze.
Nonché l’Organizzazione dei produttori di greggio (Opec). Con una lettera di tre giorni fa, il segretario Haitham Al Ghais ha chiesto alle nazioni del cartello di mettere il veto a qualunque bando degli idrocarburi. Ora più che mai l’ago della bilancia sono i Paesi poveri. «L’unico modo concreto per convincerli è che il Nord del mondo assuma un impegno finanziario serio e mobiliti le risorse per aiutarli a realizzare la transizione ecologica e, soprattutto, ad affrontare gli impatti del riscaldamento globale», spiega Richard Kozul-Wright della Conferenza Onu per il commercio e lo sviluppo (Unctad), per cui guida la divisione sviluppo e globalizzazione.
Fondato nel 1964, l’organismo Onu si occupa in particolare di debito internazionale. Tema – afferma Kozul-Wright – legato a doppio filo al clima. Tanto che, da tre anni, il dipartimento da lui diretto partecipa alle Cop, assistendo in particolare le nazioni più vulnerabili all’aumento delle temperature. «E anche all’indebitamento. Le mappe degli Stati più colpiti da fenomeni meteorologici estremi e di quelli con maggiori passivi sono perloppiù sovrapponibili – aggiunge l’esperto delle Nazioni Unite –. Per questo, senza una riforma della finanza mondiale e un impegno economico reale delle nazioni più ricche non è possibile arginare l’emergenza ambientale».
L’Alleanza degli Stati insulari sostiene che oltre la metà del debito pubblico delle venti nazioni più sensibili al riscaldamento è stato contratto per far fronte a danni causati dal clima.
Secondo un’indagine del Fondo monetario internazionale (Fmi) sugli undici disastri naturali più gravi avvenuti tra il 1992 e il 2016, il passivo delle nazioni interessate è lievitato di sette punti percentuali nei tre anni successivi. Risultati confermati da uno studio della Jubilee debt campaign. Dei 132 Paesi del Sud globale maggiormente indebitati, buona parte è situato nella fascia tropicale, particolarmente esposta agli effetti del clima. «Di fronte a una catastrofe, le economie povere sono costrette chiedere dei prestiti per farvi fronte. Questo aumenta il livello del passivo e riduce gli investimenti nazionali per prevenire i disastri e decarbonizzare. Si crea così un circolo vizioso. Per questo non è possibile arginare la crisi climatica senza risolvere il problema del debito nel Sud del mondo dove tre miliardi di persone vivono in nazioni che spendono più per ripagare gli interessi di quanto investono nell’istruzione», sottolinea Kozul-Wright.
La chiave per uscire dal labirinto è la cosiddetta finanza climatica, l’insieme delle risorse con cui i grandi inquinatori del Nord si sono impegnati a sostenere la metà del mondo vittima perloppiù incolpevole dell’emergenza. Solo una piccola parte delle promesse, però, si è tradotta in realtà. L’obiettivo dei 100 miliardi di dollari annuali per aiutare le nazioni povere a tagliare le emissioni e sostenere l’impatto dell’aumento delle temperature dovrebbe essere stato raggiunto ora, con tre anni di ritardo. Il nuovo fondo per compensare le perdite inflitte a queste ultime dal clima ha raccolto 720 milioni di dollari. «L’entrata in funzione del fondo è un passo importante. Ma con i soldi raccolti non può operare. Nel 2022, quei Paesi hanno subito danni per 109 miliardi. Troppi? Sa quanto sborsarono gli Usa per il piano Marshall? L’equivalente di 220 miliardi di dollari l’anno. Stavolta hanno 17,5 milioni».
Non è, poi, solo questione di quantità. Buona parte dei fondi viene erogato al Sud del mondo in forma di prestiti, aggravando il problema del debito. Impossibile sapere la proporzione esatta, data la mancanza di criteri e regole di certificazione uniformi per definire la finanzia climatica.
«Direi che quasi tutti i soldi sono dati a credito – dice l’esperto –. Questo è accettabile per i finanziamenti alla transizione energetica, la cui realizzazione crea introiti con cui ripagare le somme prese. Non, però, per difendersi dagli impatti del riscaldamento». Accanto alla rotta della finanzia climatica, va poi corretta quella dell’architettura finanziaria internazionale. Unctad propone, per cominciare, l’inserimento nei contratti di debito delle nazioni povere di una clausola di sospensione in caso di evento climatico estremo. Un passo piccolo e concreto. Purtroppo nella bozza del documento finale non ce n’è traccia.