martedì 28 settembre 2010
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Iter, Cern, Nasa. Sarà un caso, ma hanno spesso quattro lettere le sigle associate alle maggiori scommesse tecno-scientifiche contemporanee. Come se a livello inconscio, fra le strumentazioni spesso mastodontiche della "big science", abitasse sempre l’antica e impossibile sfida della quadratura del cerchio.Ma in tempi di crisi economica, occorre far quadrare sempre più anche i conti dei maggiori enti e progetti. E se i sogni scientifici e tecnologici non hanno prezzo, i governi di molti Paesi si mostrano comunque sempre più sensibili ai costi della ricerca.Il caso del reattore sperimentale Iter è divenuto negli ultimi mesi emblematico. La Francia, spalleggiata da tutta l’Unione europea, si era battuta a denti stretti per ospitare l’enorme impianto destinato a "mettere il Sole in scatola", secondo lo slogan che riassume l’immane sfida di generare energia elettrica riproducendo su Terra le reazioni solari di fusione nucleare. Il Giappone, battuto al fotofinish, aveva storto il naso. Ma adesso, con il cantiere già all’opera non lontano da Marsiglia, esplodono in Francia le polemiche sui costi del progetto, lievitati nel frattempo anche a causa del recente rincaro di metalli come il rame e di altre materie prime. La costruzione del reattore doveva costare 5,9 miliardi di euro, ma le stime più aggiornate parlano ormai di circa 15 miliardi. A cui dovranno aggiungersi, col tempo, 5 miliardi per l’utilizzo durante un ventennio.L’Unione europea ha appena promesso di pagare il 45 per cento, di cui quasi la metà a carico della Francia. Ma in tempi di tagli alle finanziarie di quasi tutti gli Stati coinvolti, non sarà semplice far ingoiare un piatto tanto pesante. Secondo molti esperti, nessun artificio contabile riuscirà a procrastinare dei tagli paralleli ad altri rami della ricerca.Di fronte a questo rischio di risucchio di fondi usualmente distribuiti ad altri laboratori o strutture, pericolo particolarmente avvertito proprio in Francia, è accaduto l’impensabile: Georges Charpak, premio Nobel della fisica nel 1992 e anche noto divulgatore scientifico, ha preso la testa di una cordata di colleghi transalpini che chiedono apertamente di "rinunciare a Iter". La novità di queste critiche è proprio la loro dimensione politico-economica. E il loro impatto sull’opinione pubblica pare tanto più forte se si pensa che altri due premi Nobel per la fisica, il francese Pierre-Gilles de Gennes e il giapponese Masatochi Koshiba, avevano già contestato la valenza scientifica del progetto, per via delle incertezze teoriche e dei rompicapo tecnologici connessi. Il dibattito continua, ma anche una parte del mondo politico francese comincia ad esprimere "delusione" o a sentirsi "vittima di un inganno".La crisi non risparmia neppure il Cern di Ginevra, l’istituzione paneuropea che ha in gran parte permesso l’attuale primato del Vecchio continente in molti rami della fisica. Nel 2008, gli scienziati del Cern avevano inaugurato con orgoglio l’Lhc (Large hadron collider), l’acceleratore di particelle più grande e ambizioso mai concepito, costato oltre 6 miliardi di euro: in un solo secondo, i fasci di particelle lanciati a velocità vicine a quelle della luce compiono ben 10mila volte il giro dell’anello sotterraneo lungo 27 km, urtandosi 1 miliardo di volte. L’acceleratore, che utilizza fra l’altro ampiamente tecnologia italiana, è già divenuto un nuovo simbolo mondiale della "big science".Ma questo scenario scientificamente esaltante contrasta con quanto è avvenuto nelle scorse settimane davanti agli uffici decisionali dell’istituzione. Per la prima volta, il personale è sceso in piazza per protestare contro le prospettive di tagli imminenti dei fondi. In effetti, le inedite resistenze mostrate soprattutto dal governo britannico hanno complicato più che mai le quadrature contabili inizialmente previste per i prossimi anni. Alla fine, dopo mesi di tensione, i tagli sono risultati inevitabili, anche se inferiori rispetto a certi timori: circa 102 milioni di euro "amputati" rispetto al finanziamento richiesto di 3,8 miliardi per il periodo 2011-2015.Gli interrogativi sul futuro della ricerca in Europa crescono. Nel 2000, la strategia di Lisbona aveva fissato l’obiettivo del 3 per cento del Pil Ue investito in ricerca entro il 2010. Ma non si è in realtà mai superato il 2 e adesso, anzi, tanti laboratori ed enti temono autentici tracolli. Per il momento, l’effetto più evidente resta lo slittamento nel tempo di molti progetti.La ricerca soffre anche fuori dall’Europa, ma altrove si cercano e sperimentano talora soluzioni ancora poco praticate nel Vecchio continente, a cominciare da più forti sinergie con il mondo produttivo. A mostrarlo è ad esempio il nuovo assetto voluto dall’amministrazione Obama per la Nasa, la celebre agenzia che simboleggia ancora la "conquista spaziale" americana, ma al contempo pure fucina di una miriade di applicazioni tecnologiche e scoperte che stimolano l’industria statunitense.Lo scorso febbraio, Obama aveva suscitato grandi delusioni annunciando la morte del programma "Constellation", volto al ritorno dell’uomo sulla Luna entro il 2020 come tappa intermedia prima dell’auspicato arrivo di astronauti americani nell’orbita di Marte verso il 2030. Dopo l’annuncio, giustificato da ragioni economiche, glorie nazionali del calibro di Neil Armstrong si erano scagliate contro Washington. Ma settimana dopo settimana, l’approccio alternativo precisato progressivamente da Obama ha poi finito per convincere tanti scettici. Malgrado la crisi, ha assicurato il presidente, i fondi della Nasa non verranno ridotti, ma dovranno essere spesi per progetti meno azzardati e dalle ricadute tecnologiche più chiare. Progetti da condurre perlopiù in associazione con l’industria aerospaziale privata, in modo da stimolare in tempi rapidi l’economia. Risultato: gli Stati Uniti rimandano Marte, ma per "prenotare" il proprio primato a più breve scadenza sulla frontiera promettente dei trasporti in alta atmosfera. Si tratta di un esempio già considerato da tante voci in Europa come una grande lezione di pragmatismo.
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