domenica 16 giugno 2019
La cosmesi della propaganda non basta più: cala il consenso e la piazza prende coraggio. Il rallentamento dell’economia ha indebolito l’uomo forte
Vladimir Putin (Ansa)

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Vista dall’esterno, la Russia di Vladimir Putin può sembrare un uovo di Fabergé, il leggendario gioielliere dello zar Alessandro III, un capolavoro di oreficeria strutturato a matrioske, una più preziosa dell’altra. Non le si negano in effetti considerevoli successi, sia sul piano strategico, sia su quello economico e geopolitico. Pensiamo solo alla stretta amicizia fra Teheran e Mosca, al privilegio della marina russa che ora scorrazza libera nel Mare Nostrum e attracca nelle basi sicure che Bashar al-Assad le ha regalato in cambio del suo ombrello militare; così come al colosso Rosneft, che ha gradatamente sostituito la Cina come principale alleato del Venezuela di Maduro (ma che con Pechino farà comunque grandi affari) e al gemello Gazprom, patron del grande progetto North Stream 2, il grande gasdotto controllato al 51% che unirà la Russia e la Germania passando per il Mar Baltico e rendendo di fatto Berlino (non a caso presidente onorario è l’ex cancelliere Gerhard Schröder, che giusto l’altro ieri ha definito l’annessione della Crimea un atto dovuto e naturale e condannato le sanzioni) il tenutario del dispenser che fornirà il gas russo all’Europa.

Visto da fuori, l’uovo russo si rivela una superpotenza economica e militare, la cui immagine è amplificata dall’utilizzo dei mezzi ci comunicazione (e negli ultimi anni dai social network e da internet), la cui tradizionale perizia nella disinformacija è tuttora insuperata. Oggi però il guscio in cui la Russia che aveva vantaggiosamente ricreato l’osmosi fra il Patriarcato e il Cremlino, fra la fede e il comune senso di appartenenza a quella Madre Russia che mai si era dissolta nel cuore profondo della gente è ben più fragile di quanto non appaia. Gli indizi sono innumerevoli. E non è soltanto la protesta di piazza che ha fatto liberare Ivan Golunov, giornalista sgradito al potere (fra gli arrestati non mancava Alekseij Navalny, il carismatico leader dell’opposizione) a testimoniarlo, bensì un diffuso e manifesto malcontento.

Qualcuno già dice che il crepuscolo di Vladimir Putin sia già iniziato. «Il pericolo vero – spiegano in molti – adesso sono i “millennials”. I ragazzi cioè cresciuti sotto Putin e che l’hanno votato in massa. Gli stessi che hanno visto nel corso degli anni decollare il proprio tenore di vita fino a sfiorare in certi casi il benessere del mondo che un tempo si chiamava capitalista. Ma i “millennials”, divenuti adulti nell’ovattato teatro mediatico che il Cremlino aveva predisposto per loro, una macchina del consenso senza falle che ha fornito una sorta di sacra rappresentazione della Nuova Russia, ora guardano impauriti agli scricchiolii che avvertono qua e là nella società, sul proprio posto di lavoro, nei borbottii sui mezzi pubblici. Ma la Russia non è solo Mosca e San Pietroburgo, dove l’efficacia delle propaganda è maggiore. La Russia è anche il regno delle cifre elargite dalla “Federal’naya sluzhba gosudarstvennoi statistiki” (Rosstat), il servizio statistico nazionale. Cifre che in anni non lontani sarebbero rimaste nell’oblio, protette dall’omertà della nomenklatura. Cifre che invece oggi ci aiutano a capire. Nel maggio scorso Rosstat ha rivelato che nei primi tre mesi del 2019 il Prodotto interno lordo della Federazione Russa è aumentato dello 0,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: si tratta della cifra più bassa dalla fine del 2017. Una delusione rispetto alle aspettative del ministero dell’Economia e della Banca centrale, che aveva previsto addirittura una crescita dell’1,5%. La spiegazione ufficiale si lega all’aumento di due punti dell’Iva (dal 18 al 20 per cento) in concorso con la discussa riforma delle pensioni varata dal governo. Risultato: un calo consistente di popolarità per Vladimir Putin, il cui tocco magico sembra scomparso.

«La forza – spiega Valerij Kasparov, ingegnere navale da tempo residente a Parigi – non basta più. O per lo meno non funziona più come un tempo. Non bastano la Siria, l’annessione della Crimea, i duelli aerei sul Baltico, le navi che si sfiorano nel Mar Cinese Meridionale » . Mito fondativo cavalcato da Ivan il terribile, da Pietro il Grande, poi da Lenin, da Stalin, dallo stesso Breznev e infine riesumato da Vladimir Putin, la forza perde ogni giorno di attrattiva. Al suo posto si erge oggi il fantasma della povertà che s’insinua nell’inconscio collettivo russo. Un fantasma che Putin sta pagando caro in termini di popolarità, scesa dall’86% al pur ancor ragguardevole 65%, insieme al Pil che ristagna, all’inflazione che risale e ai salari reali che si contraggono. È questo il tuorlo dell’uovo di Fabergé. E più d’uno a Mosca -– ma di questo già ci si accorgeva all’indomani delle vittoriose elezioni del 2018 – già accarezza la prospettiva del dopo-Putin.

(1. Continua)

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