sabato 26 agosto 2023
Rifugiati in prevalenza nel Bangladesh, i 700mila islamici espulsi vivono in condizioni disperate.L’appello dell’Onu in occasione dell’anniversario: «Il mondo non li può può dimenticare»
Un gruppo di profughi Rohingya in un campo allestito ad Aceh in Indonesia

Un gruppo di profughi Rohingya in un campo allestito ad Aceh in Indonesia - Ansa

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Il 25 agosto 2017 i comandi militari del Myanmar sostenuti da una parte consistente dell’opinione pubblica birmana e nel silenzio difficilmente decifrabile della leader politica più influente, la premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, davano il “via libera” alla campagna di espulsione dei Rohingya. Non la prima, in oltre mezzo secolo di dittatura militare e di fragile democrazia sotto il controllo costante delle forze armate, ma sicuramente quella con gli effetti più devastanti e persistenti contro una minoranza considerata «straniera» per origine, lingua e religione musulmana in un Paese buddista.

La distruzione delle proprietà e la brutalità dell’operazione militare denunciate successivamente come «genocidio», portarono alla fuga di 700mila Rohingya oltre il fiume Naf che segna la frontiera tra lo Stato occidentale birmano di Rakhine (Arakan) con il Bangladesh. Per loro si avviò una difficile accoglienza nei campi da tempo presenti per fornire sostegno alle vittime di precedenti iniziative di espulsione. Una vita al limite, senza prospettive, in realtà sovraffollate dove scarseggiano i servizi essenziali e le razioni di cibo sono state ridotte di recente per la scarsità dei fondi donati.

D’altra parte, un rientro, più volte ventilato e per il quale ancora diplomazie e negoziatori si stanno spendendo, resta di fatto impossibile, bloccato soprattutto dalla mancanza di documenti che attestino legalmente la cittadinanza birmana dei rifugiati e quindi l’obbligo di accoglienza delle autorità birmane. Vero è che non molti tra i 960mila Rohingya in Bangladesh aspirano a un rientro sapendo che almeno altri 100mila vivono in centri di raccolta circondati da filo spinato e guardie nel timore di iniziative violente dei nazionalisti e dagli estremisti buddisti in una patria che non li riconosce. Tanti preferiscono la via del mare per raggiungere su rotte segnate da naufragi e abbordaggi dei pirati aree (la Malaysia, la provincia indonesiana di Aceh) proposte come accoglienti da una collaudata tratta di esseri umani. «Davanti a crisi concomitanti la comunità internazionale non deve dimenticare la popolazione dei Rohingya o le comunità che la ospitano in Bangladesh.

L’appello umanitario a sostegno dei Rohigya, sia in Myanmar, sia nei campi in Bangladesh, ha bisogno di maggiori sostegni e finanziamenti. Allo stesso tempo – prosegue l’appello di ieri dell’Alto Commissario Onu per i Diritti umani, Volker Türk, rilanciato da AsiaNews – Paesi terzi «dovrebbero ampliare i programmi di ricollocazione o di protezione temporanea e la comunità internazionale deve raddoppiare il proprio impegno per invertire la rotta del Myanmar e per assicurare responsabilità e giustizia».

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