sabato 23 gennaio 2010
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La dolce vita al "Punto y Corcho" comincia alle sette della sera con una fria, una birra gelata per combattere i trenta gradi di gennaio e si può protrarre fino alle sei del mattino con le orchestre che suonano per strada nel distretto coloniale e i giovani che entrano ed escono dalla discoteca. A Santo Domingo, come a Puerto Plata, a Sosua, a Cabarete, al "Cafè de Paris" di Samanà, al "Papa Jack" di Altos de Chavòn, al "Kuh-Bar-Libre" o al "Capa Cabaña" a Las Terrenas, fino al "Merengue Bar" del "Renaissance Jaragua" tutto si somiglia e si omogeneizza nella Repubblica Dominicana, dove al turista di passaggio si somministra immediatamente il più diffuso degli slogan, "no dar un golpe", ossia non fare un bel nulla, come rimedio contro i problemi della vita. Perché qui, in quest’isola dove Colombo si inginocchiò confuso credendo di essere in Cina, il turismo, l’ospitalità a buon mercato, il divertimento sono quasi un obbligo. E allora si è tentati, perché è fatale, di domandarsi per quale perversione del destino uno spicchio di Hispaniola – quello di Haiti – sia precipitato nell’inferno mentre la restante parte, quella dominicana, conserva intatta la sua aura paradisiaca e le sua fama di grande divertimentificio caraibico, al quale non si è voluto rinunciare nemmeno durante i giorni terribili del sisma. Non meravigliamoci: con le sue discoteche, i suoi casinò, i suoi villaggi turistici affacciati sul mare, questo Paese è da sempre il buen retiro per ricchi e meno ricchi, ma anche per latitanti illustri come Silvano Larini, Giovanni Manzi, Luciano Gaucci, brava gente, in fondo, a confronto del boss camorrista Ciro Mazzarella e altri personaggi che reputano più salutare non farsi vedere troppo in giro. Ma non è tutt’oro ciò che luccica. Anche qui, nella parte felice dell’isola, non sono mancati i dittatori, i colpi di stato, le sopraffazioni. E una letale ostilità nei confronti di Haiti, culminata nel 1937 con il massacro di quasi ventimila haitiani su ordine del dittatore Trujillo. Luci ed ombre, dunque. Ma insieme alle ombre dominicane ci sono anche fatti concreti di segno ben diverso. Pensiamo ai quindicimila feriti haitiani ricoverati nelle strutture ospedaliere dominicane, al contingente militare inviato sotto l’egida dell’Onu a tenere lontani i saccheggiatori dal corridoio umanitario che va da Jimani a Port-au-Prince, ai soccorsi organizzati sin dai primi istanti dell’emergenza, all’immediata apertura di porti e aeroporti per agevolare gli aiuti umanitari, all’invio di personale medico. «Non è poco – proclama orgoglioso il ministro del Turismo Francisco Javier Garcia –, se consideriamo i rapporti tesi che ci sono stati fino a poco fa. Ma ora "mano amiga en favor de haitianos", questa è la nostra parola d’ordine». «Siamo un popolo povero – dice il console onorario Natacha Sanchez –, ma un Paese che ha fatto uno sforzo enorme. L’intera popolazione si è mobilitata e ha raccolto, in un solo giorno, 55 milioni di pesos. Molte persone sono andate ad Haiti come volontari: si sono mossi tutti, non solo le istituzioni». Al di là dell’emergenza, una nota del governo fa sapere che «la Repubblica Dominicana intende contribuire sostanzialmente alla ricostruzione di Haiti. Il presidente Leonel Fernandez, e il presidente Usa Obama si sono detti d’accordo nella preparazione di un piano a medio e lungo termine». Il che vorrà dire denaro, investimenti, stanziamenti. «Haiti avrà bisogno di un progetto integrale di sviluppo pari a 2 miliardi di dollari l’anno per cinque anni», ha detto Fernandez dopo un vertice con rappresentanti internazionali. Per un breve istante le tensioni sociali – che pure ci sono – fra Repubblica Dominicana e Haiti sembrano accantonate. Di sicuro però nessuno in questi giorni avrà gran voglia di andare a La Vega, nell’interno dell’isola, dove c’è un luogo famoso per un curioso fenomeno fisico, la "Tembladera": basta fare un piccolo salto per scatenare un movimento tellurico. Scaramanzia, perché nonostante il voodoo a Santo Domingo sia pressoché assente, non si sa mai, il dio dei terremoti potrebbe anche decidere di completare il lavoro e occuparsi dell’altra metà dell’isola.Un'isola, due diversi destini. Da cosa dipendono gli effetti di un fenomeno naturale inevitabile quale è il terremoto? In parte dalla potenza del fenomeno stesso, ma molto dipende da quanto è stato fatto per preparare un territorio e i suoi abitanti a farvi fronte. Qui la chiave del dramma che Haiti sta vivendo, ma qui è anche il punto interrogativo sul futuro. «Ad Haiti, malgrado la prevedibilità dell’accanirsi degli elementi, non è stato fatto nulla o quasi e la situazione – sia per la sicurezza delle costruzioni, sia per i servizi pubblici – era disastrosa anche in tempi normali», dice la professoressa Anna Bono, esperta di tematiche dello sviluppo internazionale, che ha tracciato una analisi della situazione haitiana per l’agenzia online SviPop.Il problema di Haiti emerge con chiarezza se si confronta la situazione di questo Paese con la Repubblica Dominicana, l’altro stato con cui condivide l’isola Hispaniola. Paesi il cui destino si è diviso circa 200 anni fa: Haiti, indipendente ma legata alla Francia, Repubblica Dominicana con una storia più travagliata di rapporti prima con la Spagna poi con gli Stati Uniti. Duecento anni fa era certamente Haiti la parte più benestante dell’isola, oggi la situazione si è rovesciata e Haiti è anche il Paese più povero del continente americano.Tenendo pur conto che i due Paesi condividono un territorio «infelice», visto che l’isola è estremamente esposta a uragani e terremoti, il confronto è addirittura sconcertante. Nell’Indice dello Sviluppo Umano 2009 (che tiene conto del reddito ma anche di altri indicatori sociali), Haiti occupa il 149° posto su 182 nazioni, mentre la Repubblica Dominicana è al 90°. Il Pil pro capite ad Haiti è di 699 dollari e nel periodo tra il 1990 e il 2007 è diminuito del 2,1% all’anno. Quello della Repubblica Dominicana è di 3.772 dollari e il tasso di crescita nello stesso periodo è stato del 3,8% annuo. Il 72% degli haitiani vive con meno di due dollari al giorno e la loro speranza di vita alla nascita è di 55 anni. I dominicani hanno una speranza di vita di 64 anni e soltanto il 15% di essi dispone di meno di due dollari al giorno.Come è dunque possibile che vi sia una differenza di questo genere? «È possibile perché un succedersi di regimi corrotti e violenti hanno impedito lo sviluppo di Haiti – risponde Anna Bono –; il peggio si è avuto con Papa Doc e Baby Doc. Ma come dimostrano i dati economici e sociali più recenti, anche dopo le cose non sono andate meglio».Questo aspetto pone un grosso punto interrogativo per il futuro di Haiti, una volta che l’emergenza terremoto sarà superata grazie alla grande mobilitazione internazionale. «Proprio per le caratteristiche del territorio sono prioritari interventi su servizi e infrastrutture che permettano di contenere i danni degli eventi naturali. Il rischio – dice Anna Bono – è invece quello di riconsegnare il Paese, e gli aiuti internazionali, a governanti incapaci e irresponsabili. Il che aprirebbe la strada a nuovi drammi, per esempio al prossimo ciclone tropicale».
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