mercoledì 25 ottobre 2023
A Jenin e Nablus la rabbia per i raid su Gaza si somma alla frustrazione per la mancata applicazione degli accordi di Oslo. Proteste quotidiane come i blitz dell’esercito a caccia di membri di Hamas
Anche i bambini al lavoro per rimuovere le macerie della moschea colpita nel campo profughi di Jenin in Cisgiordania

Anche i bambini al lavoro per rimuovere le macerie della moschea colpita nel campo profughi di Jenin in Cisgiordania - Reuters

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È stata un’altra notte di battaglia a Jenin. L’ennesima. Poco dopo l’una di ieri, l’esercito israeliano è entrato nel campo profughi alle porte della città nel nord della Cisgiordania a caccia di fiancheggiatori di Hamas: tre palestinesi sono stati uccisi, una ventina i feriti. Per la seconda volta in quattro giorni – fatto inedito dal 2000 -, inoltre, Tzahal ha impiegato i droni per colpire questo labirinto di casermoni-formicaio dove vivono quasi 30mila degli 80mila abitanti. Il governo Benjamin Netanyahu lo considera la roccaforte del gruppo armato nei Territori occupati da Israele nel 1967. La «principale minaccia» per lo Stato ebraico, diceva prima del 7 ottobre, quando la strage perpetrata dal gruppo islamista nei kibbutz limitrofi a Gaza ha mostrato l’errore strategico di dislocare mezzi e truppe dalla Striscia alla Cisgiordania.

Ora, con l’esplosione del conflitto, Gerusalemme ha stretto la morsa: le incursioni in Cisgiordania sono quotidiane, con un bilancio di 5 palestinesi caduti al giorno per un totale di 104. Altri 1.200 sono finiti in carcere: due di loro – Arafat Hamdan, 25 anni, di Beit Sira, e Omar Daraghmeh, 58 anni – vi sono morti questa settimana. «Ci siamo tolti i guanti», ha dichiarato Avi Bluth, comandante militare della regione. «Quando mai se li sono messi?», dice Mohammed, 40 anni, da due mesi collaboratore di Caritas Gerusalemme: aiuta gli abitanti del campo a ricostruire le case danneggiate nelle incursioni dell’esercito. «Il lavoro non manca mai», aggiunge, con tono amaro.

Il giorno dopo l’ultima operazione israeliana, Jenin trattiene a stento la rabbia. Da sempre epicentro delle proteste contro lo Stato ebraico, l’inizio dei bombardamenti su Gaza ha trasformato la città in una pentola a pressione, come dimostrano le proteste, tutte le sere, al tramonto. Ogni blitz israeliano la avvicina al punto di esplosione, contribuendo a far avverare la profezia del terzo fronte, a est, dopo quello sud di Gaza e quello nord del Libano. «Le ultime vittime avevano tra i 13 e i 18 anni – afferma Mohammed –. Tutti nel campo mi hanno detto che non c’entravano niente con Hamas». Anche le loro foto, comunque, presto finiranno appese sui muri del centro, nei negozi, intorno alla fontana della piazza principale. La città è tappezzata di volti di giovani con il fucile in mano, «morti nella resistenza all’occupazione», secondo il leitmotiv indiscusso. Accanto alle bandiere palestinesi, negli ultimi anni, però, sono spuntati un po’ ovunque i drappi neri di Hamas e, soprattutto, della Jihad islamica. Uno, enorme, sovrasta l’entrata al campo. «Non è che le persone qui siano estremiste. Semplicemente sono esasperate – spiega Walid Basha, docente di microbiologia all’Università di Nablus –. Ho 56 anni, dunque, ho trascorso tutta la vita sotto l’occupazione. Quando ho studiato in Giappone mi sembrava impossibile muovere liberamente senza essere fermato, perquisito, maltrattato ogni giorno, più volte al giorno. Vuole un esempio? La mia famiglia vive a Betlemme. Posso andare a trovarla solo quando non ci sono blocchi israeliani».

La rabbia dei palestinesi di Nablus al finerale di una vittima dei fondamentalisti

La rabbia dei palestinesi di Nablus al finerale di una vittima dei fondamentalisti - Ansa

Walid fa parte dello sparuto gruppo di 250 palestinesi cristiani residenti a Jenin. Tutti parrocchiani di padre Labib. Perfino l’unica chiesetta, dedicata al Redentore, porta le ferite della guerra: sul soffitto ci sono i fori dei proiettili e il retro è annerito dal fuoco esploso da Tzahal a luglio. «Come cattolico mi oppongo alla violenza. Ma dobbiamo agire sulle cause». La radice dell’ebollizione dei Territori è, secondo gran parte degli analisti e le stesse Nazioni Unite, la mancata implementazione degli accordi di Oslo. Trent’anni dopo, la promessa di uno Stato palestinese è rimasta sulla carta. Al suo posto, c’è un puzzle di villaggi e città palestinesi e insediamenti israeliani – illegali in base al diritto internazionale perché edificati in terra occupata dopo la guerra dei Sei giorni –, a qualche centinaio di metri l’uno dagli altri. Prossimi eppure non comunicanti, grazie a un reticolato di strade che costringe i primi a una gincana perenne in modo da non incrociare i vicini ebrei. Sempre più numerosi dagli anni Novanta: nei Territori vivono ormai 400mila ebrei e 2,6 milioni di palestinesi. Già nel 1998, l’allora ministro degli Esteri, Ariel Sharon, aveva esortato gli israeliani «a correre sulle colline, perché tutto quello che prenderemo resterà nostro». Invito ripetuto lo scorso giugno, dall’ultra-nazionalista Itamar Ben Gvir, alleato di Netanyahu. In sei mesi, il governo israeliano di destra ha approvato la costruzione di 13mila nuove abitazioni in Cisgiordania, il record dal 2012. Case destinate ad ampliare i 130 insediamenti autorizzati dall’esecutivo, a cui si somma un centinaio di colonie abusive eppure tollerate da Gerusalemme che, di fatto, controlla la regione.

«Area A», si legge sul cartello giallo all’altezza di Nablus. Il che, secondo gli impegni di Oslo, indicherebbe una zona sottoposta all’autorità dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Per strada, però, ci sono solo militari israeliani. Per entrare e uscire il motore economico della Cisgiordania, a una cinquantina di chilometri da Jenin, le auto sono obbligate a un giro per le colline fin quando non si trova uno snodo non sigillato dal cancello di ferro. Nessuno sa quando e quale sarà aperto e quale chiuso. Dipende da Tzahal, come l’attesa ai check-point, ai quali si arriva oltrepassato il primo sbarramento. Misure di sicurezza, ripetono gli israeliani. «Punizione collettiva», ribatte Tayseer Naserallah, esponente del partito Fatah del presidente Abu Mazen. «Nablus vive di commercio, il blocco ha fermato la nostra economia. La gente che lavora a Israele non può andarci, chi ha un campo dall’altra parte della strada non può coltivarlo, chi ha una piccola attività fuori dal perimetro deve rinunciarci», aggiunge. Già la pandemia aveva inflitto un duro colpo alle finanze della Cisgiordania. L’anno scorso, secondo i dati dell’ufficio Onu per il Commercio e lo sviluppo (Unctad), la disoccupazione era al 13 per cento, la povertà al 40 per cento.

La guerra acuisce la crisi e, con essa, la rabbia. Spesso l’ira, è rivolta proprio con Fatah, alla guida dell’Anp, considerato connivente con Israele. «Fatah ha rinunciato alla lotta armata e, dal 1993, è impegnato a mantenere gli impegni presi a Oslo. Non così gli israeliani. Questo ci ha fatto perdere consensi a vantaggio di formazioni estremiste, come Hamas. Perché Netanyahu ha sempre preferito fare accordi con loro piuttosto che con noi?». Nicola, studente di lingue e relazioni internazionali all’Università, compirà 20 anni a novembre. «Se ci arrivo. L’esercito viene ogni giorno e spara. Una settima fa, un amico è rimasto ferito solo perché passava per strada. Poteva accadere a me. Crede che a loro importi che sono cristiano e non sostengo Hamas né giustifico quanto ha fatto il 7 ottobre? Per loro tutti i palestinesi sono terroristi, da molto prima che Hamas nascesse. E il mondo non ci riconosce il diritto a resistere all’occupazione. Perché gli ucraini sono resistenti e noi terroristi?»



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