mercoledì 13 ottobre 2010
«Tutto era per terra, i tetti erano al suolo, in mezzo alla strada c'erano morti, madri che cercavano i figli, e centinaia di persone che cantavano inni religiosi e pregavano». Così il fotografo italo-haitiano Roberto Stephenson racconta le prime ore dopo la tragedia.
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"Una catastrofe assoluta": così Roberto Stephenson, fotografo romano con parte della famiglia di origine haitiana, che vive e lavora nella repubblica caraibica da anni, descrive quello che ha visto quando, abbandonata la macchina, si è avventurato a piedi del centro di Port au Prince poco dopo il terremoto. "Tutto era per terra, i tetti erano al suolo, in mezzo alla strada c'erano morti, madri che cercavano i figli, e centinaia di persone che cantavano inni religiosi e pregavano", dice Stephenson raggiunto telefonicamente dell'Ansa. Sua moglie e sua figlia stanno bene, ma la casa a Petionville, in collina poco fuori dalla capitale è inabitabile, pur essendo rimasta in piedi. Ci parla dalla casa di parenti.Al momento della scossa egli si trovava a Montagne Noir, località sulle alture attorno alla capitale, dove si sta costruendo una casa. "Ero accovacciato in giardino a lavorare, quando ho sentito come se qualcuno mi desse una spinta alle spalle, tentando di farmi cadere. Mi sono girato, e non c'era nessuno. È stato allora che ho visto i muri di recinzione e quelli della casa che oscillavano, come stessero per spezzarsi. Mai vista una cosa del genere".A quel punto, Stephenson ha preso la macchina, per correre a Petionville. I familiari stavano bene, così è andato verso il centro della città per vedere se amici che abitavano lì stessero anche loro bene. "A un certo punto non si camminava più in auto. Ho proseguito a piedi. È stato allora che ho visto la catastrofe assoluta", spiega, aggiungendo: "Ieri sera non c'erano soccorsi, nessuna sirena, solo questi canti. Ho visto un'auto di Medecin Sans Frontieres e una della Croce rossa, ma anche loro erano cauti, perchè una vettura era stata assaltata dai feriti, ce n'erano dappertutto".Stamane le sirene si sono fatte sentire così come gli elicotteri, racconta, spiegando come sulle alture i danni siano pochi, e come paradossalmente le bidonville sulle colline abbiano resistito al sisma. "I poveri qui costruiscono in eccesso di cemento armato, quindi le case hanno tenuto",osserva. Lui che è fotografo di architettura e abile narratore in immagini di volti - ad Haiti ha aperto un'accademia di fotografia e ha rappresentato il suo paese adottivo in competizioni internazionali - non se la sente di fare foto per i media, in questo momento in cui sarebbero assai richieste: "Questa è una tragedia totale, ci sono tutti questi morti, l'idea di fare soldi facendo foto... proprio non me la sento".Le altre testimonianze. Urla di chi cerca i familiari, folla per strada disperata, gente ferita che cerca soccorsi. Una cronaca drammatica quella fatta da Fiammetta Cappellini, responsabile dell'Avsi (Associazione Volontari per il Servizio Internazionale) in Haiti e raccolta dalla Misna, e una delle poche testimonianze uscite da una città rimasta isolata dal resto del mondo. "Qui è ancora notte - ha raccontato la Cappellini - siamo tutti per strada, si sentono le urla di chi cerca familiari, parenti, amici; i soccorsi non sono mai partiti perchè subito le macerie hanno impedito qualunque spostamento nelle tre ore successive il terremoto, poi è calato il buio e la città, per tre quarti storicamente senza illuminazione, è rimasta drammaticamente immobilizzata; a cercare i sopravvissuti è la gente comune, gli unici mezzi a operare anche grazie a cellule fotoelettriche sono quelli della Minustah, la missione locale dell'Onu". "Uscendo da lavoro - ha proseguito il racconto l'operatrice umanitaria - ho attraversato la route de Delmas una delle strade principali; una casa su tre era distrutta, per strada tante persone ferite dai calcinacci di case crollate che cercavano di raggiungere gli ospedali; il sisma ha colpito verso le 17, un'ora dopo la chiusura degli uffici e della maggior parte dei posti di lavoro. In tanti hanno trovato le proprie case distrutte, i familiari scomparsi, noi stessi abbiamo aiutato quattro fratellini rimasti senza genitori, uno di loro ferito gravemente". Il racconto procede a singhiozzi, grazie a un collegamento Internet di fortuna, l'unico a quanto pare funzionante in questo momento: "Telefoni e cellulari non funzionano, sembra anche che siano saltate le trasmissioni di televisione e radio. Ma adesso quello che ci preoccupa di più è quello che troveremo quando sorgerà il sole. Con i miei occhi ho visto il commissariato di Delmas completamente crollato così come la prigione minorile, sono andati distrutti anche la cattedrale, la sede dell'Unione Europea, il palazzo presidenziale; una nota governativa ha riferito che il presidente è sano e salvo. Gravemente danneggiato il palazzo dell'Onu".Dal racconto emerge un dramma di cui ancora non si conoscono i confini che ha colpito il paese più povero d'America, gli ultimi tra gli ultimi: "Appena fatto giorno andremo a Martissant. È la zona che ci preoccupa di più. Dalle notizie in nostro possesso tutto il centro città è stato pesantemente colpito: Canape vert, Delmas, Bourdon, Petionville? Adesso devo chiudere, provare a riposare un pò per poter aiutare tra qualche ora". "Nou atè nèt", "Siamo a terra", racconta padre Andre Siohan, dei missionari di Saint Jacques, una congregazione francese, che dalla capitale haitiana Port-au-Prince manda notizie qualche ora dopo terremoto che ha colpito la città. "Sono stato in centro città stamani per visitare le comunità religiose amiche: la zona è totalmente devastata e ci sono migliaia di vittime. È terribile. Tutti noi stiamo bene, ma siamo senza notizie di alcuni nostri seminaristi. Qualcuno è ferito, forse qualcuno è morto.Pregate per noi" scrive in una e-mail il missionario, che riesce a comunicare soltanto grazie a un sistema satellitare. Per telefono, alla Misna continua il racconto un confratello di Siohan, padre Pierre Le Beller, tornato in Francia dopo circa trent'anni di lavoro in Haiti. "Sotto le tende allestite nel giardino della nostra casa danneggiata dal terremoto, si trovano in questo momento i nostri confratelli, alcuni seminaristi, amici e vicini del quartiere di Pacot. Temiamo unnumero altissimo di feriti: la vera emergenza sarà quella di curarli" dice Le Beller, sottolineando che già in tempi normali i servizi ospedalieri sono carenti, nel paese più povero della zona caraibica. "I racconti sono raccapriccianti, si sentono le urla e i pianti di gente ferita, ci chiediamo quanti sono intrappolati sotto le macerie? Ci dicono che la cattedrale è crollata, così come il Palazzo nazionale e quello dell'Onu, un edificio a cinque piani, sulla strada che porta verso il quartiere residenziale di Petionville". È difficile, per padre Le Beller, andare avanti nel riferire le notizie, soprattutto quelle della distruzione del Centro Caritas nel centrale quartiere di Saint Antoine, una struttura di aiuto, accoglienza e reinserimento di ragazzi di strada che lui stesso aveva creato e al quale aveva dedicato anima e corpo. Per fortuna, per ora, sembra che tutti i giovani del centro siano vivi. Haiti è terra originaria di missione per la "Societè des petres de Saint Jacques", fondata nel 1966 da monsignor Francois Poirier, allora arcivescovo di Port-au-Prince. Oggi sono circa una ventina i missionari consacrati nel paese e una ventina i seminaristi.
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