venerdì 14 agosto 2015
Kos, ondata di profughi siriani dalla Turchia. Solo 4 chilometri verso la libertà. Nell’isola l’equilibrio tra turisti  e migranti è stato messo a dura prova.
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La situazione a Kos è degenerata quando si è rotto un fragile equilibrio che andava avanti ormai da troppe settimane. Dall’inizio della stagione turistica alcune migliaia di profughi e immigrati si erano installati in campi di fortuna (o meglio «bivacchi», secondo la stampa locale) occupando con tende, sacchi a pelo, materassini o strati di cartone ogni angolo pubblico appartato che offrisse ombra o riparo. Tutto questo nel capoluogo dell’isola, anzi nel suo centro storico: un gioiello dell’Egeo Sud-orientale, dove affascinanti rovine di età ellenistica e medievale si mescolano alle testimonianze superbe della occupazione ottomana e poi italiana del Dodecaneso. E proprio ai cancelli del palazzo orientaleggiante costruito dagli architetti italiani dei primi del Novecento, attualmente sede del comando della polizia locale, si assembrava ogni giorno fin dalla prime ore del mattino una folla di cento, duecento persone per attendere l’affissione dell’elenco dei nomi di coloro che avevano ottenuto l’ambito chartì: il foglio di identificazione e permesso che consente di abbandonare legalmente l’isola e di raggiungere la terraferma.Il problema è però che Kos ha 30mila abitanti, che il totale degli immigrati attualmente presenti oscilla tra i 5mila e i 7mila (quasi tutti concentrati nel capoluogo e nell’immediata periferia), e che, a fronte delle 400 documentazioni espletate quotidianamente, la media degli arrivi giornalieri è di 700 persone. La scelta proprio di Kos come prima tappa europea da parte di migliaia di siriani, afghani, pakistani (queste le nazionalità più rappresentate) la si comprende a colpo d’occhio quando ci si affaccia dagli spalti dell’imponente Castello dei Cavalieri: quelli che, assieme alla vicina Rodi, tennero testa per decenni agli invasori ottomani. Le coste della Turchia sono vicinissime, vi si scorgono distintamente edifici e villette; il canale marino che le separa dall’estremità orientale dell’isola, circondata da spiagge magnifiche e piene di ombrelloni per cinque mesi l’anno, è largo appena quattro chilometri. Anche qui assistiamo al fenomeno degli scafisti, che per mille euro a testa accettano di traghettare chi vuole raggiungere l’Unione Europea dalla prospiciente città turca di Bodrum (l’antica Alicarnasso). Si tratta di un tragitto molto più breve e meno pericoloso di quella che porta i disperati africani dalle coste libiche o tunisine a Lampedusa. Come mi dice con una punta di orgoglio Omar, un siriano diciannovenne ben vestito e appena giunto con alcuni parenti a Kos, lui che nel suo paese era campione di nuoto li avrebbe percorsi anche a bracciate. Del resto, la stessa posizione strategica che oggi mette in difficoltà l’isola, l’ha favorita nel corso della storia: qui è vissuto e ha insegnato tra gli altri Ippocrate, fondandovi la sua pionieristica scuola medica, ritenuto autore del Giuramento ancor’oggi pronunciato dai medici all’inizio della carriera. Non sorprende dunque che andare visitare il famoso “platano” pluricentenario sotto le cui fronde si racconta che il famoso medico insegnava e curava, e trovarlo circondato da centinaia di accampati in precarie condizioni igienico-sanitarie, o l’attraversare nella medesima situazione i giardini antistanti la Cattedrale cittadina o gli stretti camminamenti di accesso al Castello, creasse alla lunga una situazione insostenibile. Eppure, un curioso equilibrio si era creato, e fianco a fianco scorrevano e vivevano per i viali alberati della città due mondi paralleli: le decine di migliaia di turisti europei, giovani prevalentemente scandinavi e dell’est, e i loro più sfortunati coetanei mediorientali e centro asiatici. Con situazioni anche idilliache di turisti che offrivano il loro aiuto ai più indigenti (come un ragazzo che mi ha mostrato con orgoglio le scarpe che uno di loro gli aveva comprato), e giovani magrebini che si tuffavano dai moli o dalle spiagge più vicine al porto cercando di godersi in qualche modo una loro vacanza, scattandosi selfie sullo sfondo delle eleganti navi da crociera.Sarà un caso, ma non ho visto nessuno di loro, da venti giorni che sono qui, importunare o neppure soltanto chiedere aiuto o  elemosina, né a un greco né a un turista. Discreti e silenziosi, dignitosi nella loro attesa, sebbene in condizioni quasi insostenibili, cercavano quasi di sfuggire agli sguardi altrui. Il fragile equilibrio si è spezzato quando, accresciutesi ancor più le presenze proprio in prossimità del culmine della stagione turistica, le autorità locali in coordinamento con i responsabili degli Interni hanno deciso di trasferire tutti questi profughi fuori dal centro, sgombrando nel giro di una giornata tutti gli accampamenti abusivi, e li hanno radunati in uno stadio in disuso della periferia, “l’Antagora”, adattato all’evenienza solo con alcune latrine chimiche. Lo sgombero è stato attuato nella giornata di martedì: la stampa locale ha parlato, poco elegantemente, di «operazione-scopa», ma comunque l’azione si è svolta senza resistenze da parte degli immigrati. Nel punto di raccolta si sarebbero dovute svolgere d’ora in poi tutte le pratiche burocratiche. Ma fin dall’inizio ci sarebbe dovuto essere anche un adeguato numero di funzionari e di addetti all’ordine pubblico, e comunque lasciare alcune migliaia di persone per un’intera giornata sotto il sole cocente di queste latitudini non è stata una buona idea. Da quando le scene degli scontri hanno fatto il giro del mondo, l’impressione è che le agenzie di viaggio locali si siano riempite di gruppi di immigrati che, con in mano il loro chartì evidentemente ottenuto con più sollecitudine, acquistano l’ambito biglietto per la traversata dell’Egeo. Destinazione Atene. Poi, a sentire quasi tutti, la Germania. Ma il flusso dall’Anatolia continua.
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