mercoledì 4 novembre 2009
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Q uattro novembre 2008: è la notte ma­gica, quella della valanga democra­tica che travolge John McCain. Sul palco allestito al Grant Park di Chica­go Barack Obama celebra il trionfo davanti a una folla in visibilio. Ringrazia tutti e ricorda che «la strada sarà lunga e in salita». L’Ame­rica si veste di blu, il colore dei democratici. E ha un nuovo condottiero: Barack Hussein Obama, 47 anni, è già una scheggia confic­cata nella storia. Primo afroamericano a di­ventare presidente. Candidato post-razziale capace di unire l’America attorno alla spe­ranza di cambiamento. Promesse tante, oltre 500 ne ha contate il si­to Politifact.com; aspettative altissime. La missione è complessa: sanare le ferite di un Paese lacerato. Ma governare è più difficile che vincere. Basterebbe guardare le foto. Tre­centosessantacinque giorni dopo il tripudio di Chicago, Barack Obama ha il sorriso tira­to, più capelli bianchi e qualche chilo in me­no. Il peso della responsabilità, si dice. Ma anche quello delle battute d’arresto e degli errori di un’Amministrazione che ha buttato subito tutta l’agenda sul piatto. Raccoglien­do finora tanti applausi per le intenzioni (e un Nobel per la Pace), ma non la stessa dose di sostanza. Obama resta amato, quasi idolatrato nel mondo, ma dentro i confini americani la sua popolarità è in declino. Dal 78% del giorno dell’insediamento a un 50% scarso. Mai nes­sun presidente ha perso così tanto in così po­co tempo. Colpa della riforma della sanità, ovvero il cardine della politica interna del pre­sidente. Lui la vorrebbe radicale, come chie­deva il suo mentore Ted Kennedy: potrebbe (dovrà?) alla fine accontentarsi di ritocchi so­stanziali, però lontani dalla mutua pubblica. Per questo i liberal mugugnano. Da «Mr. change» Obama è diventato per molti il “Si­gnor tentenna”. Bush era troppo decisioni- sta; Obama attendista. Approccio che gli sta costando molto anche sul tema del clima. Il Congresso ha bocciato il passaggio di una legge per la limitazione di gas inquinanti e Obama rischia di mandare al vertice Onu di Copenaghen in dicembre una delegazione Usa a mani vuote. E si può parlare di sogno infranto anche sulla chiusura di Guantana­mo. Il 22 gennaio la firma sul provvedimen­to che fissava l’avvio dell’iter per chiudere la prigione fu il primo atto ufficiale da presi­dente. Oggi la promessa si è impantanata nel­le secche di mille ostacoli. È andato con i pie­di di piombo anche sulle questioni etiche. Non aprendo ai gay in divisa ma rovescian­do (seppur fra mille cautele) il divieto di fi­nanziamento pubblico per la ricerca sulle cel­lule staminali embrionali. Il consigliere David Axelrod riconosce l’em­passe: «Abbiamo seminato molto, ma il rac­colto non può essere im­mediato». L’economia co­mincia a dare segnali di ri­presa (+3,5% nell’ultimo tri­mestre), grazie anche al piano di stimoli per 787 mi­liardi di dollari. Ricetta key­nesiana, soldi pubblici per trainare la crescita e creare lavoro. Ma la disoccupazio­ne, anziché scendere, è sa­lita sino al 10%. I repubblicani lo accusano di essere una superstar mondiale e di coltivare troppo la sua immagine. È volato in Danimarca per perorare ( perdendo) la causa olimpica della sua Chicago e ricevuto per ap­pena 15 minuti sull’Air For­ce One il generale McChry­stal, capo della missione Usa e Nato in Af­ghanistan. Se i conservatori Usa non perdo­nano nulla, il resto del Pianeta invece conti­nua ad adorarlo. Per l’apertura all’islam nei discorsi del Cairo e in Turchia; per il disarmo nucleare invocato a Praga e ancora all’Onu; per il ripudio della tortura e per la conferma che entro il 2011 i soldati Usa saranno fuori dall’Iraq. Cambi di rotta, almeno in appa­renza, rispetto allo stile da cowboy di Bush. Ma finora gli effetti sono ovviamente poco misurabili. I grandi del mondo gli hanno anche detto qualche no. Al G20 di Londra, in aprile, in­cassò il “nein” della Merkel sui piani di sti­molo all’economia e sull’Afghanistan. Per non urtare i cinesi – possessori di una fetta larga del debito pubblico Usa – Obama ha rinviato a fine dicembre l’incontro con il Da­lai Lama. E ha toccato solo timidamente con Pechino il tasto dei diritti umani violati in Ti­bet, fra gli uiguri o a danno dei cristiani. Il filo conduttore della sua politica estera è un misto di realismo e idealismo. Rahm E­manuel, capo dello staff, ha definito Obama «un realista con i valori». Ha rimesso nel cas­setto la guerra preventiva e sostituito la Dot­trina Bush (banalmente riassumibile in «non si dialoga con i nemici») con la ricetta Oba­ma: quella della comunità mondiale che ha interessi comuni e che quindi deve collabo­rare. Obama non vede gli Usa come la na­zione indispensabile (copyright Madeleine Albright), ma come «primum inter pares» e esalta il multilateralismo come modus ope­randi sulla scena internazionale. La cooperazione con le altre potenze parte da basi concrete. Da qui il «reset» delle relazio­ni con la Russia sino alla dismissione del pro­getto di Scudo spaziale in Est Europa. O il tentato dialogo con l’Iran cui ha assicurato il diritto ad avere un nucleare per scopi civili. Infruttuoso finora appare l’impegno per i ne­goziati fra israeliani e palestinesi, un tasto do­lente dove spesso quel che ha detto Obama è stato smentito, ritrattato e poi ancora smen­tito da Hillary Clinton. Il rompete le righe in Iraq è figlio della vo­lontà di aumentare l’impegno in Afghanistan. Dove agosto e ottobre sono stati i mesi più ne­ri per i soldati Usa dal 2001. Intanto Obama valuta da mesi se e quanti uomini inviare co­me rinforzi. Se assecondare le richieste dei generali oppure gli umori dei democratici, molti dei quali vorrebbero invece un ritiro.
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