giovedì 17 febbraio 2011
COMMENTA E CONDIVIDI
Nell’affaire egiziano l’Amministrazione Obama ha quasi perso la faccia. Se è riuscita a emergere dalla parte giusta della crisi che ha portato al collasso di uno storico alleato come Hosni Mubarak, lo si deve all’istinto di Barack Obama. Ma se Washington vuole avere un’influenza sui prossimi atti del dramma mediorientale, deve imparare a usare meglio il suo «soft power». Aiutata da una maggiore destrezza con i social network e da una buona dose di potere «hard», soprattutto economico. L’analisi di Joseph Nye, professore di Harvard ed ex presidente del National intelligence council della Casa Bianca, parte dalla constatazione che il «soft power» americano – insieme di valori trasmesso dai media e dalla cultura popolare, secondo la definizione da lui coniata nel 1990 – è in declino, soprattutto in Medio Oriente. Colpa dell’antiamericanismo nato dopo le guerre in Afghanistan e Iraq, ma anche di un messaggio poco chiaro dell’Amministrazione Obama.Professor Nye, che cosa può fare l’Amministrazione Usa per spingere nella direzione che desidera, vale a dire quella democratica, i movimenti anti-autoritari in corso in Medio Oriente? Quale può essere insomma il suo modello di «esportazione della democrazia»?Il governo americano deve trovare un messaggio forte da lanciare ai giovani della regione. Finora si è mosso in ordine sparso. Il segretario di Stato Clinton, il capo degli Stati maggiori riuniti Mullen, persino il senatore Kerry, a turno hanno prima invitato Mubarak a concedere riforme, poi hanno timidamente abbracciato la piazza. Ora hanno atteggiamenti ugualmente contraddittori nei confronti di Yemen e Barhein. La sensazione è che siano stati colti di sorpresa dalla forza di questi movimenti.Come è possibile?La realtà è che per l’Amministrazione Obama la promozione della democrazia non era inizialmente una priorità nei rapporti con i regimi mediorientali. Obama ha sempre sostenuto, in principio, la promozione della democrazia in Medio Oriente, ma è stato timido nel criticare i regimi autoritari della regione. In un discorso lo scorso febbraio in Qatar, ad esempio, Hillary Clinton ha elencato diritti umani e democrazia ultimi fra gli obiettivi di Washington nel mondo arabo, dopo la soluzione del conflitto israelo palestinese, il controllo del programma nucleare iraniano, la lotta all’estremismo violento e la promozione di opportunità per i giovani. A cosa si deve questa ambivalenza?Obama è salito al potere in un momento in cui il modello di promozione aggressiva della democrazia di George W. Bush era stato discreditato. Il nuovo presidente è arrivato alla Casa Bianca promettendo di riscattare l’immagine dell’America e assicurando amicizia al mondo islamico. Ma per non rischiare l’antiamericanismo e garantirsi la cooperazione dei regimi arabi nella lotta al terrorismo, si è adattato allo status quo, limitandosi a generici richiami alla mancanza di apertura dei regimi arabi.È stato così anche dietro le quinte?Non del tutto. L’amministrazione ha continuato a finanziare programmi di promozione della democrazia e a usare i propri ambasciatori per invitare i regimi alle riforme. Ma la sensazione è che la Casa Bianca abbia mantenuto un equilibrio precario. Una politica estera intelligente nell’età dell’informazione richiede una gestione più sofisticata del potere.In quali termini?Dobbiamo saper ragionare simultaneamente in termini di strumenti di potere «hard», come le minacce economiche e persino militari, e nuovi strumenti «soft» che possano far penetrare all’interno di queste società i nostri valori in forma attraente. Oggi accadono molte più cose fuori dal controllo anche dei governi più potenti e autoritari. Cose che gli Stati Uniti, se non vogliono essere colti di sorpresa e avere un impatto sull’esito di questi movimenti, non possono ignorare.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: