mercoledì 26 novembre 2014
​ANALISI Putin usa la forza in Ucraina e sfoggia arroganza con l'Occidente, ma il suo governo ha iniziato a tagliare i servizi. La crisi di Mosca è il prezzo dell'autarchia. E si vedono le code in banca per vendere rubli. di Luigi Geninazzi
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C’è una regola che in Russia ha sempre funzionato in modo implacabile: quando sale il prezzo del petrolio si rafforza anche il leader del Cremlino (lo si è visto nell’ultimo decennio con Putin), quando il prezzo cala il potere traballa (è successo con Gorbaciov e poi con Eltsin). A partire dal marzo di quest’anno, in coincidenza con l’invasione della Crimea, il costo del greggio ha iniziato la sua corsa all’ingiù, precipitando da 110 dollari al barile fin sotto quota 80. Ogni calo di un dollaro implica una perdita per Mosca di 1,7 miliardi, il che significa che a fine 2014 i mancati introiti saranno più di 50 miliardi. E gli scenari per il 2015 non promettono nulla di buono, a tal punto che la governatrice della Banca centrale russa, Elvira Nabiulina, ha dichiarato di «temere una situazione d’emergenza con il petrolio a 60 dollari». Petrolio e gas sono fondamentali per la Russia, di cui costituiscono il 70 % delle esportazioni. Metà delle sue entrate fiscali dipende dagli utili delle compagnie energetiche. Non per nulla a Mosca qualcuno incomincia a sussurrare che la caduta dei prezzi del greggio è la vera, terribile sanzione punitiva in grado di mettere in ginocchio il Paese.
«Siamo di fronte a una manipolazione politica», si lamenta Mikhail Leontyev, vice-presidente di Rosneft, il gigante petrolifero russo, che ha puntato il dito contro l’Arabia Saudita, in combutta con gli Stati Uniti per indebolire Putin. Circola una leggenda nera secondo cui i sauditi erano pronti a far risalire il prezzo del greggio se la Russia non avesse più dato protezione al regime siriano di Assad. Il rifiuto di Mosca sarebbe all’origine della vendetta di Riad. Pesa inoltre la produzione americana del petrolio e del gas di scisti che ha raggiunto livelli impensabili fino a poco tempo fa e che contribuisce al ribasso dei prezzi sul mercato mondiale. Soffiano venti da guerra fredda che sospingono la Russia verso Oriente. Si è parlato molto dello storico accordo siglato a maggio tra Putin e Xi Jinping per una fornitura trentennale di gas russo alla Cina, ma ci vorranno anni prima che diventi realtà e nel frattempo è Pechino che sta facendo shopping a Mosca, non il contrario.Il fronte che scotta è quello occidentale. Le tensioni geo-politiche e le sanzioni varate dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti a seguito della crisi ucraina hanno provocato il crollo del rublo, in caduta libera sul mercato dei cambi. A marzo ci volevano 35 rubli per un dollaro e 45 per un euro; oggi ne occorrono 48 per la valuta americana e 60 per quella europea.
Nel vano tentativo di sostenere la moneta nazionale, la Banca centrale russa ha bruciato oltre 70 miliardi di dollari, pari al 20% delle riserve, mentre continua la fuga dei capitali che quest’anno toccherà la cifra record di 125 miliardi di dollari, il doppio del 2013. In questo quadro di grande vulnerabilità, le sanzioni occidentali dirette ai settori chiave dell’economia russa – dalla finanza alla tecnologia militare – cominciano a far sentire i loro effetti: crediti alle banche sospesi, affari bloccati, contratti non firmati. Solitamente, di fronte alla svalutazione della moneta nazionale, un Paese è portato ad aumentare le esportazioni e a favorire gli investimenti stranieri. Ma la Russia di Putin non può adottare questa classica ricetta perché le sanzioni, per quanto varate in modo graduale, glielo impediscono. Zar Vladimir non si fa scrupolo di usare la forza in Ucraina e di sfoggiare arroganza nei confronti di quei governi che osano criticarlo, ma la sua politica muscolare nasconde una debolezza sostanziale. A ricordare questa scomoda verità è l’ex ministro russo delle Finanze, Aleksei Kudrin, che recentemente ha evocato i gravi rischi che sta correndo l’economia del Paese. Kudrin avanza fosche previsioni di stagnazione nel 2014 e di recessione nel 2015, in aperto contrasto con Putin che parla di «crescita moderata».
Si volta pagina. Dopo anni di spesa pubblica a go-go lo Stato russo si trova costretto a scegliere tra gli impegni presi in materia di Welfare (che finora hanno consentito misure generose come gli aumenti di stipendio nel settore del pubblico impiego e la pensione ai sessantenni) e gli aiuti all’apparato industriale. Non potendo dire di "no" alle imprese di Stato (già solo la Rosneft ha bisogno di 40 miliardi di dollari), il governo ha cominciato a tagliare i servizi, riducendo la spesa sanitaria e abolendo i sussidi per i più poveri. E con la caduta del rublo e il blocco delle importazioni si riduce il potere d’acquisto dei cittadini e cresce l’inflazione che quest’anno salirà al 9%.In oggettiva difficoltà Putin s’è inventato un rimedio peggiore del male. Alle sanzioni ha risposto con l’embargo dei prodotti alimentari, tagliando fuori le imprese occidentali da uno dei mercati più redditizi del mondo. È una ritorsione che sventola la bandiera dell’autarchia e danneggia le imprese di casa nostra, ma è anche un boomerang che colpisce la tavola dei cittadini russi. Il fatto è che questo grande Paese, a parte gas e petrolio, non produce quasi nient’altro, non ha mai sviluppato un’adeguata industria di beni di consumo e importa il 40 % dei prodotti alimentari. Apparentemente a Mosca nulla è cambiato se non le etichette: polli americani "made in Kazakhstan", formaggi e prosciutti italiani che arrivano dalla Bielorussia, salmone norvegese che ha preso la strada dell’Azerbaigian. Ma fuori dalla capitale c’è penuria.
Secondo Putin le sanzioni sono una straordinaria opportunità. «Finora eravamo abituati a vendere gas e petrolio pensando di poter comprare tutto il resto. Comodo, ma sbagliato. Adesso noi russi dobbiamo produrre da soli quel che ci serve e siamo in grado di farlo», ha dichiarato in un’intervista alla tv tedesca Ard. Troppo bello per essere vero. L’agricoltura in Russia non si è mai risollevata dai disastri provocati dai bolscevichi. «Pretendere che di colpo si metta a funzionare è pura follia», osserva Mikhail Anshakov, capo di un’associazione di consumatori. Ma nell’ubriacatura nazionalista che si è scatenata sull’onda della crisi ucraina la parola d’ordine del "facciamo da noi" trova larghi favori. «Siamo sopravvissuti all’assedio di Leningrado, riusciremo a tirare avanti anche senza il grana padano», scherza un’orgogliosa babushka. La popolarità di Putin è sempre alle stelle, oltre l’80% ad ottobre, quasi a smentire la regola implacabile di cui parlavamo all’inizio. Ma qua e là serpeggia la paura per il futuro. A Mosca sono tornate le code: non davanti ai negozi ma agli sportelli delle banche dove la gente ritira i rubli per convertirli in euro e in dollari. Nazionalisti sì, ma con la moneta del nemico in tasca.
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